“Mi chiamo Petra perché a mia madre piacevano i nomi antichi”. Forse per questo, perché è scritto nel dna della sua protagonista che Petra, sesto film del regista catalano Jaime Rosales, affonda le radici nella tragedia greca mettendo in scena un racconto dal respiro mitico che per capitoli si compone in ordine non cronologico tra lutti, incesti, suicidi e vendette. Una storia familiare in cui l’amore (cercato, negato, accolto) e la morte (cercata, negata, accolta) si legano indissolubilmente, tra padri assenti e padri onnipresenti, madri misteriose e madri sacrificate, figli perduti e figli che arriveranno.
Una tragedia antiteatrale che ruota intorno alla ricerca dell’identità e al movimento che questa produce. Movimento nello spazio, nel tempo, nella storia, nella Storia. Ricerca di identità e ricerca di verità. È ciò che Petra dice di cercare nell’arte ed è ciò che muove ogni sua azione. Ricerca di identità e ricerca di paternità (biologica, linguistica, storica). Il voler sapere chi è il suo vero padre conduce Petra nell’atelier del celeberrimo e ricchissimo scultore Jaume Navarro. Nell’elegante tenuta isolata in mezzo alla campagna ci sono collaboratori fidati, servitori vessati, una moglie sfuggente e risentita, un figlio sensibile e intelligente ma incapace di reagire all’attitudine sprezzante del padre. In mezzo a loro, pacatamente, prende il suo posto Petra.
Ogni rivelazione è melodrammaticamente parossistica e ogni reazione ineluttabile, come se al destino non ci si potesse sottrarre. Gli elementi narrativi si accumulano mentre ogni dinamica interna al racconto è innescata dalla sottrazione: di informazioni, di confronto, di esternazione, di verità, di responsabilità. Movimento narrativo e temporale che un'elegante e ultraconsapevole regia (quella di un autore ormai affermatosi in quanto tale) sottolinea, lasciando che i personaggi si sottraggano alla mdp, sfilandosi allo sguardo, uscendo di scena dai lati dell’inquadratura. Una dialettica fatta di interni ortogonali ed esterni fluttuanti nella quale lo spettatore viene lasciato a fissare frontalmente gli spazi chiusi per poi essere accompagnato fuori, a guardare altrove, a soffermarsi sulla natura che impassibile accoglie e osserva il succedersi degli eventi.
Tutto si muove e tutti si sottraggono, in un modo o nell’altro. Tutti, tranne Petra, che invece si impone. Impone la sua presenza nella casa e nella vita di quel piccolo clan disfunzionale e impone se stessa a quello che sembra essere il suo destino. Mossa come è dal desiderio di sapere, di conoscere, di essere, Petra è anche l’unica capace di incassare i colpi di quel destino beffardo e di reagire alle rivelazioni che arrivano sempre troppo tardive portando conseguenze di più in più drammatiche. L'unica capace di ribellarsi a quella generazione di padri che sacrifica i propri figli incapace come è di lasciar loro il proprio spazio. Da qui il finale con cui Rosales risolve il suo controllato e precisissimo costrutto, un finale nel quale ancora una volta Petra spiazza il proprio destino imponendo ad essa la sua scelta e liberando sua figlia dal sacrificio. Solo così si impara a esserci oltre che a essere, solo cosi un genitore può lasciare il proprio figlio libero di costuire la propria identità, solo così un Paese può fare i conti con il proprio passato e con la propria memoria e consegnarne l'eredità.