Già è difficile mantenere il passo, che è diventato di un film all’anno, figuriamoci tenere alto il livello. Prima o poi doveva arrivare uno Star Wars non in grado di reggere il confronto con gli altri episodi della saga – sia quelli ufficiali che gli spin-off. È toccato a quest’ultimo Solo: A Star Wars Story e un po’ bisogna dire che ce l’aspettavamo. Almeno sin da quando la coppia Phil Lord-Christopher Miller, registi designati dalla Lucasfilm per dirigere il film è stata licenziata e rimpiazzata con Ron Howard. Una scelta conservativa che – senza nulla togliere al professionismo di uno come Howard, che fa quello che deve fare e cioè portare a casa il film – era sembrata subito un arroccamento senza ritorno.
Ma forse il problema più grosso sta all’origine e cioè nell’idea dei produttori di realizzare una cosa mai fatta e mai vista prima nell’universo di Guerre Stellari. Ovvero un episodio su un singolo personaggio. Una scelta che – per quanto si concentri su uno degli eroi più amati e centrali dell’universo creato da Lucas – sconfessa alla radice una delle basi dell’ontologia della saga e cioè il primato della collettività. Quello che ha sempre contraddistinto Star Wars infatti è la celebrazione della forza collettiva in luogo di quella individuale. E nello spin-off inaugurale della serie Star Wars Anthology che precede Solo, e cioè Rogue One, è proprio il senso globale della lotta fra bene e male a trionfare su tutto.
La difficoltà di avere a che fare con un protagonista assoluto è palpabile sin dalle prime scene del film e Lawrence Kasdan – non esattamente uno digiuno di Star Wars – sceneggiatore in coppia con il figlio Jon cerca di tematizzare, giocandoci in maniera molto intelligente, proprio quest’aspetto. Al giovane Han infatti – nel momento in cui riesce a fuggire dal pianeta di Vandor dove è nato e sul quale è internato come schiavo lavoratore – viene assegnato un cognome e siccome il ragazzo al mondo non ha nessuno, questo cognome è proprio Solo. Ma non è abbastanza. Da quel momento infatti ha inizio una storia picaresca che si nutre di situazioni narrative fra il prevedibile e la pura compilazione. L’incontro con Chewbacca – attesissimo ma decisamente sprecato –, quello con Lando Calrissian, il primo viaggio con il Millenium Falcon e poi, finalmente, lo svelamento di come è stata compiuta (e che cosa sia) la celeberrima “rotta di Kessel in meno di dodici Parsec”. Questa parte – che occupa il momento centrale e più lungo del film e sostituisce di fatto i consueti inseguimenti farciti di sparatorie nello spazio profondo – è forse la più noiosa e anodina. Inoltre – la seguente è una parentesi a uso e consumo dei fan più estremisti – manca del tutto il personaggio di Maz Kanata, che ci saremmo aspettati di trovare dato che ne Il risveglio della forza veniva definita dallo stesso Han «una vecchia amica»…
A trascinare l’azione è quindi un racconto che tende a mettere in risalto da un lato il carattere ribelle, sornione e impertinente di Han – «non sono buono – dice a un certo punto – sono una persona terribile!» – e dall’altro il suo eroismo incosciente. Niente di nuovo però, dato che questi sono tutti elementi che in Una nuova speranza, capostipite della saga, erano perfettamente evocati e, crediamo, non necessitassero di ulteriore caratterizzazione. Anche perché, al contrario, ad essere debole è un altro aspetto di Han che conoscevamo bene e che avremmo sperato potesse risaltare meglio: ovvero quel lato ironico, vitalista e scanzonato che aveva reso il personaggio di Harrison Ford uno dei più riusciti sin dal lontano 1977.
Non meno lacunoso e confuso è poi il lavoro sul background del protagonista e qui le responsabilità degli sceneggiatori sono ampiamente condivise con il regista. Se la parte iniziale – tutta giocata sui toni grigi di Vandor – che racconta la fuga di Han, è suggestiva e anche visivamente funziona bene, quella immediatamente successiva nella quale il protagonista si ritrova arruolato nella fanteria imperiale e combatte in una trincea fangosa che ricorda la Verdun della Prima Guerra Mondiale è un vero pasticcio. Mentre le ambientazioni – vale a dire i pianeti – che passano da paesaggi deserti a lande innevat aggiungono veramente poco all’immaginario esotico della saga (al contrario di Rogue One dove i setting erano uno dei punti di forza).
Insomma questo Han Solo che inizia a percorrere la strada verso la condivisione degli ideali dell’Alleanza ribelle (cronologicamente siamo undici anni prima gli eventi di Episodio IV), più che un cavaliere solitario o un eroe da western americano – come è dipinto nel battage promozionale – sembra più il protagonista di un videogioco (del resto non è un caso che la serie animata, i videogiochi e i comics dell’universo espanso della serie siano i maggiori ispiratori di questa antologia di spin-off). Qualcosa che somiglia poco al personaggio di Harrison Ford che ricordiamo: senza dubbio uno dei protagonisti di Star Wars in assoluto più misteriosi, ma che forse ci è sempre piaciuto così tanto proprio per quello.