C’è qualcosa di sublime nel modo in cui Lars von Trier persegue la soddisfazione dei suoi più acerrimi detrattori. Il narcisismo, la manipolazione (di attori, personaggi, spettatori), l’assenza di una qualsiasi moralità dell’immagine (col suo fido compagno, il moralismo), l’uso strumentale del cinema (neanche più come terapia), la cervellotica fondazione “metafisica” delle proprie perversioni (nella fisica della carne, nel male intrinseco in tutte le cose, non solo nell’uomo), la semplificazione teatrale - ironica, lirica, pop, kitsch - di temi enormi, sostanziali, fondativi (per la vita e quindi anche per il cinema).
Ne abbiamo già incontrati di autori che fanno l’esegesi della propria opera dentro la propria opera. Ma qui siamo all’esegesi dell’esegesi, all’autore che spiega la propria arte “a chi non l’ha capita” mentre la esercita, cercando di portare ancora più in là l’oltraggio al pubblico pudore, giocando apertamente con l’indignazione del pubblico. Perché poi, il problema di The House That Jack Built, e di tutto ciò che farà von Trier da qui all’eternità, è che ha bisogno di uno spettatore che lo prenda sul serio, cioè che si accontenti della superficie dell’immagine, altrimenti anche di fronte all’assassinio osceno, tossico, crudele di un ragazzino, e l’esibizione “artistica” del suo cadavere oltraggiato (l’arte del serial killer e quella del regista), vedi subito l’effetto che voleva provocare, il sarcasmo intellettuale del regista nei panni dell’autore “che non accetta alcuna regola di buona creanza”. Ci sta allora anche la beffa delle beffe, per l’autore interdetto da Cannes a causa delle sue dichiarazioni nazistoidi, l’evocazione di Hitler in persona, ovviamente dentro la perversa filosofia dell’arte e della morte del serial killer.
Lo scopo, dal suo punto di vista, è pur sempre nobile. Si parla anche di noi anestetizzati di fronte alla violenza. Di ciò che fingiamo di non vedere intorno a noi mentre ci scandalizziamo per i film di Lars von Trier. Si parla anche di America, come gli accade spesso, e quindi (come suggerisce David Rooney) se guardi i cappellini rossi del suo omicidio più efferato vedi Trump, così come pensi al corpo mutilato di Sharon Tate e magari anche a quello trascinato da un pick up di James Byrd jr. Il fatto è che tutto questo rimane come sospeso, platealmente irreale, costruito, astratto, come tutta la storia di Jack, il serial killer interpretato da Matt Dillon. Il punto di vista è il suo, naturalmente, quello di un assassino sanguinario, di mestiere ingegnere (lui che voleva fare l'architetto, si presume il Grande Architetto), che rievoca cinque dei suoi sessantuno omicidi. Ma non appena si entra nella storia, ogni volta che cominciamo a vedere e sentire qualcosa, von Trier ci strappa via dalla finzione con digressioni artistiche, filosofiche, visive. Cosa sarebbe l’arte di Glenn Gould senza le sue ossessioni psicotiche? Si parla di cattedrali gotiche, aerei da guerra, vino. Si evoca l’idea che la sofferenza umana vada collocata dentro una sorta di disegno universale senza disegno, che ha una sua bellezza senza moralità, intrinseca alla materia, e che i veri artisti sono quelli che accettano questo non-senso e lo consegnano all’eternità.
L’esegesi dell’esegesi si ritaglia un posticino all’inferno. Non solo in senso metaforico. Perché Lars von Trier, nella sua (giustamente) alta considerazione di sé, non vede nulla di male nel fatto di disegnare sullo schermo una sorta di personalissima Diabolica Commedia, pretenziosa, certo (lo sa anche lui e ci ride sopra alle nostre spalle), facendosi accompagnare da Virgilio in persona. Si parlava di questo film come la “versione horror di Nymphomaniac”. Ma a parte il fatto che l’orrore, perché sia tale, ha bisogno che lo spettatore ci creda, che non sia una sua parafrasi, abbiamo già visto troppi film di von Trier per non conoscere la sua ossessione per l’artificio, per la sua esibizione, la ricerca del suo fondamento, l’esercizio della sua arte: dalla pura realtà del Dogma al suo ribaltamento-parodia, dal set disegnato per terra alle “Variazioni” teoriche sul tema, fino al puro nulla in cui ci ha fatto precipitare alla fine di Melancholia.
Ci serve questo non-cinema? Von Trier riderebbe della domanda priva di senso. E si gode la nostra mancata consolazione, gettandosi nel cuore dell’inferno, una volta costruita la sua “casa”, nonostante il Virgilio-spettatore-critico-intellettuale gli avesse offerto una via d’uscita onorevole, dopo aver insistito per tutto il viaggio sul fatto che l’arte abbia bisogno di amore, che il bello sia parente stretto del bene. E noi spettatori rimaniamo qui a dibattere sull’osceno e l’immorale, su ciò che si può o non si può fare al cinema, sulla noia inevitabile che ormai rischia di suscitare la provocazione vontrieriana – la sua sublimazione arty, la sua sofisticazione e razionalizzazione dialogica – sulla facilità con cui von Trier scivola nel ridicolo quando cerca il grandioso, sul fatto che i suoi film vale la pena vederli sempre perché non c'è nulla di paragonabile.
Ora attendiamo l’esegesi dell’esegesi dell’esegesi.