Concorso

Zimna Wojna (Cold War) di Paweł Pawlikowski

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1949: nella ricostruzione post bellica della Polonia, così come in molti stati del blocco sovietico, Wiktor, Irena e Kaczmarek, tre musicisti e ricercatori, stanno raccogliendo testimonianze di musica folclorica (si potrebbe pensare sul modello dell’esperienza di Kodaly Bartók), per creare un collettivo, Mazurek, per la promozione della musica popolare. Ma già, vicino è loro c’è chi si scorna per la scollatura tra popolo Volk: «questa l’avrebbe cantata nella stessa maniera un ubriacone qualsiasi sotto casa mia» ma, soprattutto emergono, alla faccia dell’internazionalismo socialista, i segnali del nazionalismo «questa è bella, ma in che lingua cantano? – lituano… ah, peccato che non siano dei nostri» o «sì, va bene, ma possono cantare anche i pregi della riforma agraria?». Poco dopo, in una palazzina signorile dispersa nella campagna, le falle nel tetto sfondato si vedono da lontano, il gruppo apre le selezioni per la creazione del coro. Dei tanti giovani candidati, solo i migliori, i più autentici, saranno selezionati. Tra di loro si intravvede, per la prima volta, il volto di Zula, magnetico anche se segnato dalla guerra e da un passato famigliare turbolento (forse ha ucciso il padre). Non ha un brano, non ha pronto niente, ma le basta un accenno di controcanto sul pezzo che un’altra delle candidate sta provando per rubare la scena a questa, parassitarle la performance: Wiktor è rapito, la collega Irena un po’ meno, ha subodorato qualcosa. «Cantaci qualcosa di tuo». E la giovane rifà, a memoria, un brano che palesemente non appartiene al repertorio popolare, e nemmeno è in polacco: è una canzone tratta da un film russo degli anni ’30. Zula è presa, Irena esce in sostanza di scena. D’altronde, Joanna Kulig, classe 1982, attrice-feticcio di Pawlikowski, già Ida nel film omonimo, incarna uno di quei casi in cui la fotogenia si rivela in tutta la sua potenza (dal vivo è uno scricciolo, sembra una ragazzina), e, soprattutto, quella musica la conosce bene, essendosi diplomata proprio in musica popolare. Ma quel che è evidente, prima e durante questa sua prima apparizione, è che il vero tema di Zimna Wojna è il tradimento: il tradimento della tradizione, il tradimento degli ideali, il tradimento dell’ideologia, il tradimento amoroso. Un teorema che si sviluppa nella forma apparente del mélo.

In 80 minuti, Wiktor e Zula si inseguono per 25 anni, avanti e indietro dalla Polonia, a Berlino, a Parigi, la musica si farà musica da film e poi jazz – il genere forse più legato al concetto di tradimento –, per poi tornare in Polonia in una chiesa sventrata e abbandonata in mezzo alla campagna, dove si respira odore di umidità e di Tarkovskij, e chiudere con un matrimonio/suicidio, uniti sulla panca come gli innamoratini di Peynet. Alto e popolare convivono in questa immagine, e d’altra parte un senso doppio si può rilevare in tutte le immagini di questo sesto film di Pawlikowski, (che forse smetterà di definirsi “prestato al cinema”), fissate nell’estrema eleganza del bianco e nero qui lattiginoso e là scintillante di Lukasz Zal, (che oltre a Ida, ha all’attivo anche il bel Dovlatov di Aleksej German jr, visto alla Berlinale di quest’anno), in un formato 4:3 sfruttato in maniera estremamente consapevole, con la parte alta del quadro che si lascia invadere dai corpi solo a momento debito. Zula mente, praticamente sempre; Wiktor si lascia invadere dalla menzogna.

Una chiusa vandalica, fuori registro, ma in fondo in tema con l’idea di tradimento: per dirla con i Coma_Cose: «Musica pop/ve la spiego/lei lo lascia lui va in para/e voi che ci cascate/Niagara». Ci siamo cascati, e che naufragio meraviglioso.