Dopo l’impegno e di Plaire, aimer et courir vite (2018), in Concorso qui a Cannes lo scorso anno, Christophe Honoré cambia tema, ispirazione e direzione tornando a un cinema più svagato ma non per questo meno brillante, ragionato e intelligente del solito. Chambre 212 racconta la crisi coniugale di una coppia di mezz’età dalla prospettiva femminile, portando però l’analisi su un piano totalmente astratto, cosa che permette al regista di improvvisare, divagare e giocare con la rappresentazione in un modo completamente libero e personale.
La storia è quella di Maria (Chiara Mastroianni), docente universitaria di legge la cui scappatella con uno degli studenti del suo corso, viene scoperta dal marito Richard (Benjamin Biolay, che è il vero ex marito della Mastroianni), con cui è sposata da vent’anni. Dopo un breve litigio Maria se ne va di casa e decide di passare la notte in una camera d’hotel che affaccia proprio di fronte al suo appartamento, continuando a osservare Richard che vaga per le stanze disperato. Nelle ore successive – in un’atmosfera fra il sogno e la fantasia – la donna inizia a incontrare e interagire con le personificazioni di uomini e donne che hanno fatto parte della sua vita: una versione di Richard a vent’anni, la madre, la nonna, la prima amante del marito, tutti gli uomini con cui è stata a letto e una specie di brutta copia di Charles Aznavour in giacca di leopardo.
La camera 212 è una stanza delle meraviglie, un portale che mette in comunicazione passato e presente, un luogo della mente, dei sentimenti e delle emozioni in cui ogni cosa è possibile: la realtà, l’immaginazione e il sogno, tutti nello stesso momento. Per Maria è l’occasione di parlare, confessare, riflettere e dire a chi la circonda quello che non ha mai detto. Ma anche l’opportunità per guardare le cose con più attenzione, lasciando che il cinismo e l’ordine che hanno preso a dominare la sua vita (e che il marito le rimprovera) e quel mondo dove «due più due fa quattro, fine!» nel quale vive, vengano messi in discussione. L’amore, il sesso, il desiderio, le pulsioni elementari e i bisogni più adulti, i rapporti con gli altri e con se stessa costituiscono la materia con cui Maria si misura per provare a capire – attraverso la crisi del proprio matrimonio – il sottile rapporto fra ciò che è e ciò che vuole essere.
È un’introspezione leggera come la commedia quella di Honoré, eppure mai banale, facile o eccessiva. Temi come la difficoltà delle relazioni, la crudeltà del tradimento e l’egoismo sentimentale si misurano su elementi contingenti come lo scorrere del tempo, la noia della routine e il bisogno di evasione che tutti proviamo. E proprio perché non esistono risposte – e nemmeno il finale, aperto, assicura un completo happy end – il racconto è affidato alla mistificazione della scrittura e della messinscena. Honoré dà vita a un’opera che non si misura in nessun istante con il dato di realtà o la verosimiglianza (nemmeno nel messaggio), ma come nei film di Woody Allen spinge sui tasti dell’astrazione e di un cinema che non imita la vita, ma la riduce a un bozzetto o un’ipotesi esistenziale su cui innestare riflessioni al di là (o al di qua) della narrazione. Quasi un locus letterario in cui i personaggi agiscono e pensano in maniera non ordinaria. E non è un caso che il film sia ambientato a Montparnasse, dentro una Parigi onirica, affascinante, inconsueta e ammantata dalla neve – che ricorda quella di Cuori (2006) di Resnais – e che è allo stesso tempo dinamica, cangiante e colorata. Come un sogno.