Dove eravamo rimasti? All'anti-musical, stonato e punk. A una Giovanna d'Arco mai vista, prima delle battaglie e del rogo ("prima" di Dreyer e Bresson), bambina e adolescente che si ribella a ogni autorità per ascoltare le sue “voci”, la volontà di Dio (il “suo” Dio?). Eravamo rimasti a un film inaudito, eversivo, solenne, una cosa mai vista prima, la parodia di un'opera e la sua trascendenza in (modernissimo) “mistero medievale”, per evocare quel personaggio solenne, eversivo, inaudito. Jeannette.
Come dare seguito a un film così definitivo? La risposta, trattandosi di Bruno Dumont, non poteva certo essere banale. E allora ecco Jeanne, ispirato al secondo e terzo libro che Charles Péguy ha dedicato a Giovanna d'Arco (quando era ancora ateo). Non più un musical, un'opera rock, ma un “film d'azione” (definizione del regista), in cui le gesta della Pulzella d'Orléans in realtà sono lasciate rigorosamente fuori campo, la scenografia è solo senso, sensazione, metafora, le didascalie sottolineano ironicamente una vaghezza («All'inizio dell'avant'ieri di una settimana di maggio del 1431») che toglie peso alla storia per librarsi nello spazio dell'eterno presente.
Le canzoni ci sono ancora, ma per lo più in forma di preghiera che si innalza da un fuori campo che sta dentro Giovanna, nell'invisibile impenetrabile che nessuna battaglia può distruggere, nessun processo può estirpare, nessun rogo può bruciare. La poesia di Péguy, la sua musica, torna a suonare in sé e per sé, in dialoghi interminabili, in processioni di nomi, funzioni, formalità, formule teologiche, in discorsi fatui e profondissime “verità”, parole di buonsenso e insensati giri di parole.
Come la prima volta, ci sono momenti di assurda comicità, da cui emerge ciò che pensava Péguy della Chiesa (di ogni chiesa), di ogni forma di potere e coercizione su corpi e coscienze. E ancora una volta, ecco la misura della dismisura, per cui tutto è oltraggioso, fuori da ogni buon senso estetico, ma tutto appare estremamente solenne, come in una rappresentazione sacra.
Non una rievocazione, ma qualcosa che accade sotto i nostri occhi, come sempre, quando si parla di eroi e delle loro azioni, che mandano per aria la nostra idea di un progresso lineare, facendo riemergere le domande essenziali, quelle che ci facciamo da sempre, sull'uomo e il tempo, lo spirito e la storia, il cielo e la terra (il testo di Péguy, costruito sulla ripetizione, e la circolarità aiuta moltissimo).
Per dirla con Dumont, «bisogna passare attraverso una storia, una messinscena, perché possiamo comprendere tutto ciò che è impalpabile e segreto». Lo sapeva benissimo il “bergsoniano” Péguy, convinto del fatto che le idee più importanti e le verità spirituali debbano passare attraverso l'azione. Non il cinema come didascalia, illustrazione, ma come rappresentazione di ciò che è interiore: «È strettamente parlando una mistica, questo mettere in movimento le connessioni segrete in un'armonia di cui lo spettatore è la parte interessata e il cinema lo strumento» (ancora Dumont). Vedi ad esempio quel momento, durante il processo, in cui una voce “sbagliata” si fa canto, evocando l'eternità e il suo silenzio tremendo, che va a riempire l'architettura imponente della cattedrale di Amiens, quel suo portare la terra verso il cielo.
Tutto questo mentre noi rimaniamo sconcertati di fronte alla disarmata Jeanne, che qui ha le fattezze di una bambina di dieci anni, quella Lise Leplat Prudhomme che avevamo già incontrato in Jeannette, chiamata a dare un corpo all'anima bambina (la sua, dell'eroina, volendo anche la nostra), l'innocenza, la forza pura, che resiste alla violenza subdola di chi vuole imporre la sua idea su ciò che è giusto e sbagliato.
Jeanne forse non ripete il prodigio di Jeannette, le sue intuizioni, la sua maleducata genialità, ma porta il suo discorso ancora più in là.