Cinema di animazione. Troppo spesso capita che ci si dimentichi che la tecnica animata non sia un genere di appartenenza ma solamente, appunto, una modalità di ripresa. Il problema principale però è che a dimenticarselo non sono solamente gli spettatori, che traducono all’istante in cartoni animati associando questi lavori ai bambini, ma siano anche gli stessi autori a trascurare la prima delle due componenti: il cinema.
Fortunatamente Zabou Breitman e Eléa Gobbé-Mévellec non rientrano nella categoria. Probabilmente perché sanno di avere tra le mani un progetto stimolante ma sicuramente non innovativo (né per temi né tanto meno per sviluppi narrativi), così si ingegnano minuto dopo minuto, frame dopo frame, a far parlare, vivere, respirare il cinema. Les Hirondelles de Kaboul è un affresco (termine non casuale vista la scelta estetica di usare l’acquerello come base principale dei disegni animati) puntuale e drammatico della Kabul di fine secolo scorso dove i destini di quattro personaggi si intrecciano tragicamente tra divieti, speranze, disillusioni e dittature culturali prima ancora che militari.
La forza del film risiede principalmente nella sua capacità di raccontare il tutto attraverso sequenze potenti e impossibili da dimenticare ma il disegno e il tratto del lavoro sono semplici e lineari, una scelta disorientante se pensiamo allo sgomento e alla potenza di alcune scene quasi horror (primi fra tutti il finale nello stadio e il momento della lapidazione). Questa intuizione ossimorica presente alla base dell’apparato estetico non fa altro che rispecchiare il concetto su cui si basa l’intero film. Il dentro e il fuori, la liberà e la prigionia, gli uomini e le donne, la luce e l’ombra, il volto nascosto e il volto svelato: binomi agli antipodi costretti a entrare in contatto senza alcun filtro, senza la possibilità di un dialogo, di un confronto. Da questa prepotente e insensata convivenza nasce il disagio e il fallimento di una coppia di coniugi, di una città, una comunità e più in generale una nazione. Le rondini del titolo sono decisamente più libere dei personaggi del racconto. Ma non tanto perché possono librarsi nell’aria, quanto perché possono vantare un contatto diretto e costante con le generazioni precedenti e future.
Il trucco sta tutto nella capacità di sguardo propria di ognuno di noi. Solamente convertendo il nostro punto di vista, smettendo di arroccarci su preconcetti e imposizioni secolari potremmo forse sperare di cambiare davvero le cose. A cominciare dal giudicare un film perché animato e non recitato, perché disegnato a mano invece che digitalmente, oppure acquerellato invece che rispecchiare la cupa tensione narrativa. E il cinema è il nostro ultimo interlocutore..