Il grande pregio di Jessica Hausner è quello di avere un’idea di cinema talmente rigorosa, personale e consapevole da poter ricondurre al proprio stile qualsiasi tipo di storia, racconto, spunto narrativo. E Little Joe nonostante sia un film che non somiglia per niente a tutto quello che la regista austriaca ha realizzato sino a ora, ha tutti i tratti più tipici e profondi del cinema hausneriano.
La storia è quella di Alice, una ricercatrice botanica che insieme al suo team sviluppa un nuovo tipo di fiore con poteri terapeutici: capace di guarire le persone dall’infelicità e bisognoso di amore. Durante la fase di sperimentazione però il fiore, battezzato Little Joe – lo stesso nome del giovane figlio di Alice – inizia a comportarsi in modo bizzarro e a causare dei marcati mutamenti nel comportamento di chi entra in contatto con il suo polline.
La struttura narrativa è tipicamente horror, con una serie di personaggi (a iniziare dagli animali) che avvertono la pericolosità dell’elemento malvagio e alla fine soccombono al suo potere, ma l’orrore cui Hausner ricorre non è quello più tipico che fa leva sulla suspense, piuttosto, come nel precedente Hotel (2004) – il film che per atmosfera e costruzione del racconto, più assomiglia a Little Joe – sul totale annullamento di ogni passione e sentimento. Ribadendo idealmente il totale anti umanesimo del proprio sguardo sul mondo e sulla vita già al centro di Lourdes (2009) e Amour fou (2014), opere in cui la regista affrontava temi universali e primari come le contraddizione della fede e l’inconsistenza dell’elegia romantica.
In Little Joe però tutto questo è portato all’estremo. La glacialità e l’immaterialità dei rapporti sociali e dei sentimenti reciproci fra i personaggi diventano il metro entro cui si misurano le relazioni. E all’interno delle quali non esiste alcuno spazio né per l’amore, né per la felicità: proprio ciò a cui la creazione di Little Joe punta.
Alice non sembra essere in grado di provare amore per nessuno: rifiuta le avances del collega Chris, è separata dall’ex marito Ivan e soprattutto prova sentimenti contrastanti anche nei confronti del figlioletto. Ciò a cui la possessione scatenata dal fiore la mette di fronte è in primis la presa di coscienza che la completa spersonalizzazione di quelli che le stanno intorno – nonostante i tentativi da parte della donna di combattere – sia in realtà la risposta ai suoi bisogni. E non è un caso che il film si chiuda con la partenza di Joe per la casa del padre.
Gli “zombie” di Little Joe, che nella perdita delle proprie peculiarità umane si consegnano completamente all’amore per il fiore, provano un sentimento puro – nel proprio essere condizionato – soltanto verso un essere vegetale. Solo eliminando l’elemento umano dalla propria affettività dunque, essi riescono a trovare la felicità che inseguono. E alla quale puntano come tutti quanti, per citare le parole che Alice dice alla propria psicanalista. Sta proprio qui il senso più acuto di Little Joe: il film non suggerisce una soluzione o una risposta al tentativo di definire cosa sia (o in cosa consista) la felicità e nemmeno se esista o meno la possibilità di raggiungerla, ma piuttosto quanto sia inopportuno, inapplicabile e, forse, insensato il suo inseguimento. Pur in un incedere narrativo che soffre di qualche schematismo il film racconta quindi un percorso di involuzione emotiva e sentimentale che proprio per il totale smarrimento soggettivo a cui è associato, finisce per portare all’unica forma di felicità concretamente avvertibile e nella quale la sconfitta diventa il più accettabile degli esiti: quella della disumanizzazione.
Ciò che però emerge più di tutto in Little Joe, è la straordinarietà dell’universo emozionale e visivo che la regista austriaca riesce a costruire. Ancora più che nel passato Hausner spinge oltre la radicalità del proprio sguardo e attraverso un controllo totale (quasi maniacale) degli elementi formali lascia emergere un senso di inquietudine perturbante che inquadratura dopo inquadratura porta il film a un grado di oggettività spietato, quasi sfiancante per lo spettatore. Non è solo la musica opprimente del compositore Teiji Ito (già autore di colonne sonore per Maya Deren), ma anche la ricerca minuziosa degli accostamenti cromatici – il colore rosso del fiore contrasta fortemente le tinte pastello degli abiti della protagonista e degli ambienti in cui i personaggi stanno rinchiusi per quasi tutto il film – e ovviamente le inquadrature claustrofobiche, apparentemente senza uscita, a rendere Little Joe l’opera misteriosa e inestricabile che è. Quasi un punto d’approdo nella carriera della regista viennese, sia in senso estetico che contenutistico, eppure qualcosa di talmente radicale da aprire, forse, a prospettive di sguardo ancora nuove.