Visione doppiamente eccentrica: una serie tv (quand’anche d’autore, e feticcio a Cannes), a un Festival (che non è per nulla nuovo, ma impone sempre uno scarto), e per giunta nei due episodi centrali, il quarto e il quinto su dieci. Al di là dell’abitudine di Refn a rompere le consuetudini (lo stesso Fremaux dichiara di non sapere le ragioni della scelta…), questo particolare aiuta a inquadrare meglio un’esperienza che potrebbe diventare un fenomeno.
Di norma ai Festival viene proiettato il pilota (a Cannes Twin Peaks, a Venezia L’amica geniale, The Young Pope, Suburra, a Berlino una moltitudine) o l’integrale (ancora a Cannes P’tit Quinquin, Top of the Lake, a Venezia Olive Kitteridge). Nel primo caso si sposano due logiche. Quella più cinematografica, perché i registi che si prestano alla tv fiction sono abituati a realizzare, di fatto, un film di durata canonica (un episodio lungo, i primi due) per poi mantenere la supervisione dei restanti, girarne al massimo qualcun altro. Ma anche quella televisiva, perché il sistema produttivo-editoriale USA (ma ormai non solo: vedi il caso Sky Europe) vive sulla vendita dei diritti altrove più che sulla pubblicità al primo passaggio, in particolar modo nel segmento delle premium cable tv, che realizzano i prodotti che noi chiamiamo di quality tv o di complex tv (loro no: le fanno). Quindi ha consolidato da sempre nel pilot il luogo di confronto con tutti i pubblici: quello a casa, ma soprattutto quello degli investitori e dei buyer. E sarebbe meglio tenerlo sempre presente per evitare di leggere l’esperienza festivaliera di serie tv come una semplice incursione d’eccellenza di un Autore in un universo ancillare.
Refn fa il contrario, in tutti i sensi: dirige tutti e dieci gli episodi, realizza per una Over The Top Television (Amazon Prime Video, che a Cannes ha comprato Les Miserables di Ladj Ly, intuendone il tiro americano) e mostra il cuore della serie. Dunque tutta la serie è cinema. Lo dichiara lui stesso: è un film di 13 ore. Non è il primo: l’ha fatto Lynch per la terza stagione di Twin Peaks, ma anche Soderbergh per The Knick (e non era vero).
Qui però entra il gioco il ruolo delle OTT, e la differenza sostanziale rispetto alle pay tv classiche (HBO, Showtime, Starz, ma anche le nostre Sky Atlantic e Canal+): è innegabile che i nuovi soggetti (oggi principalmente Netflix e Amazon, di scarto Hulu, domani sicuramente Disney+ e Apple) consentano ai registi cinematografici una libertà di sperimentazione che né il sistema cinematografico né quello televisivo puro permetterebbero (più). Si era già visto con i Coen di La ballata di Buster Scruggs, che non era (più, nuovo) solo un film a episodi, ma anche una mini-serie antologica, e una carrellata meta- su tutto il loro cinema.
In modo ancora più strutturato, Refn porta tutto il suo cinema su Amazon: è una specie di trasmigrazione di mitografia cinematografica. Diversamente da Lynch (di cui si candida a essere apostolo, o adepto: le citazioni, anzi i calchi, da Strade perdute sono esplicite), che ha sempre lavorato in parallelo sui due mezzi, qui assistiamo a una rilocazione di mondo.
Too Old to Die Young è prima di tutto un pastiche, un centone, una gemmazione lunga di Drive, Only God Forgive e The Neon Demon. Questo è l’aspetto più interessante, anche al di là del piacere della visione, questo è lo spostamento dall’esperienza (l’evento) al fenomeno. Le notizie che circolano in rete ci danno un inquadramento della storia (vaghe, da collazione di comunicati stampa): c’è un poliziotto che ha ucciso una donna e perso un collega, e deve allearsi con il suo assassino. Quello che vediamo ce ne dà un altro: c’è un poliziotto che uccide i cattivi fuori dalla legge, un po’ insieme a una setta mistica di vendicatori, un po’ per la malavita. I due episodi hanno un andamento quasi verticale (soprattutto il secondo visto, cioè il quinto), ma intuiamo alcuni elementi che dovrebbero appartenere alla mitografia di serie, ai running plot: il rapporto tra il protagonista e una studentessa modello, i legami con la setta, il fascismo imperante nella polizia di Los Angeles.
Tutte queste tracce si intersecano con una serie di rimandi alla sua produzione più recente: tematici (la guida, la colpa e il perdono, essere davanti a un soggetto scopico che trasfiguri l’identità), iconografici (tutto), musicali (Cliff Martinez), di genere (il noir, il mélo), di corpi (Miles Teller nuovo Ryan Gosling, Jena Malone da The Neon Demon). La mitografia di serie si sovrappone quindi con (fino a diventare indissolubile da) la mitologia d’autore.
La sensazione (o meglio: l’auspicio) è che questo Too Old to Die Young possa rappresentare davvero un nuovo anello evolutiva nell’età del transmedia storytelling: dopo la centralità della fiction orizzontale su quella verticale, e oltre la funzione salvifica della serie antologica. Che, sia detto tra parentesi, è l’unica vera possibilità di sopravvivenza in un’epoca di bulimia produttiva e di complessificazione parossistica: dalle antologiche pure (Black Mirror) a quelle di stagione (True Detective, Fargo, American Horror Story, forse il nostro Pope). The next step is: la serie mitologica.
Produzioni garantite da player che non devono più fare i conti con i risultati di pubblico (Twin Peaks è stato un bagno di sangue per Showtime) e i profitti (il modello in perdita di Netflix, il mecenatismo multimiliardario di Bezos, forse il prossimo monopolio sui contenuti di Disney), e che consentiranno agli autori cinematografici con un immaginario consolidato e iterativo (Tarantino? magari la Coppola, Dolan, puntiamo sul nostro Sollima…) di creare macro-storie lunghe come spin-off illimitati della loro idea di cinema.
Se questo accadrà, ed è bello pensarlo, questa visione festivaliera dell’episodio quattro e cinque di una serie potrà essere ricordata come un’epifania. Altrimenti sarà stato il divertissement di un regista genialoide e visionario. E stronzo.
Poi naturalmente, per adesso, c’è il contenuto. C’è la mano di Ed Brubaker, l’autore di fumetti che ha riscritto il noir e il crime, c’è la fotografia di Darius Khondji. E soprattutto c’è il gioco, l’irrisione. C’è Mandy di Barry Manilow usata come stop and go del racconto, da diegetica ad extra-diegetica durante l’inseguimento, poi lasciata tutta, con le macchine che continuano a guidare da Los Angeles al deserto finché non finisce, e allora si può cominciare a sparare (il bloccaggio simbolico del progetto), c’è la macchina elettrica, il feticismo estetico. C’è una masturbazione mentale da IMDB su chi sia davvero l’attrice che ha esordito al cinema a 12 anni ed è diventata un cult (non a Cannes ma ha Venezia: è Jena Malone, con Donnie Darko…dei della nerdness proteggetici…). C’è William Baldwin. Ma il gioco dei riconoscimenti è divertente, ma sterile, perché se questo davvero è un mondo, dobbiamo solo abitarlo.
C’è un secondo (quinto) episodio quasi perfetto.
C’è anche il sesso, che Refn non ha mai praticato, e per il quale (attrice porno-manichino) sarebbe bene chiamare un analista di quelli bravi, ci sono interni in cui la yakuza assiste a una prova di tiro con l’arco rituale con una donna vestita di rosso su un divano (il Lynch-detector esplode). C’è anche la politica.
Ma non abbiamo visto niente. Abbiamo solo visto il quarto e il quinto episodio.