Solo volti. Scolpiti dalla luce.
Volti come paesaggi, disegnati dall'esistenza. Le emozioni che hanno scavato rughe profonde come canyon. Le esperienze e le età della vita depositate sul viso come fossero ere geologiche. Occhi luminosi, vivi, che gioiscono (di cosa?), ma anche vuoti, spenti, troppo stanchi per poter comunicare qualcosa. Labbra piegate all’ingiù dal peso dei ricordi o che nascondono un sorriso invisibile (beffardo? autoironico?).
Volti come storie. Qui si indovina un luogo, un mestiere, un modo di stare al mondo, là un tempo passato per sempre, una Taiwan che non esiste più. Qui c’è un uomo che paga i suoi errori, che soffre il peso dei rimorsi, e là una donna che si gode il suo trionfo, o forse fa solo finta (racconta una storia a se stessa, è la sua maschera).
Tsai Ming-liang ha girato un film di soli primi piani, che emergono dal buio. Osservati con la macchina ferma, per un tempo che a volte sembra non finire mai. Alcuni sono silenziosi e si lasciano semplicemente scrutare, altri reagiscono o interagiscono; c’è chi racconta la sua vita, sentendo il bisogno di accompagnare la storia del proprio volto con le parole (la propria versione dei fatti), chi invece utilizza un’armonica, chi si limita a dormire. Sorrisi, lacrime, smorfie buffe, espressioni impassibili, facce che sembrano venire da un tempo lontano, visi persi in un qualche altrove interiore.
Tsai si limita a guardare con l’intensità che sappiamo. Ancora una volta osserva la superficie delle cose per farcele vedere in profondità. Perché c’è sempre un invisibile oltre il visibile (che puoi vedere solo se lo sai guardare). Ma qui non dà respiro e non offre vie di fuga, non colloca le storie e le persone in uno spazio che ci consenta di vederle meglio. Qui si tratta di saper ascoltare, di aprirsi all’incontro e al relativo mistero, di innamorarsi di un enigma. Chi è quel volto, cosa ha vissuto, cosa ha da raccontare, perché mi affascina, mi incuriosisce, mi interroga? Esseri umani diversi da me. Tutte le vite che non ho potuto vivere, ma che posso provare a raccontare. Di uomini e donne incrociati al mercato, ma anche di Lee Kang-sheng, che proviene direttamente dal suo cinema (il suo volto “vero”, prestato a tante storie in passato).
Tutto questo accompagnato dalle intuizioni sonore di Sakamoto, che qui sembra proseguire la ricerca di async, suoni ricavati da oggetti (storie, ricordi) ed “entità sintetiche” (intuizioni, visioni), natura e sovrannaturale, sempre in sottrazione, tra ordine e caos, tra il provvisorio casuale e il sublime.
Alla fine c'è solo un grande spazio vuoto, il set, rimasto senza umanità, popolato da fantasmi, dall’assenza di vita e di storie, governato dalla luce. Il controcampo.