Sulla carta, tutto lasciava prevedere che quello di 22 July – ennesimo film di questo concorso veneziano con la N di Netflix nei titoli di testa – fosse uno spunto quanto mai congeniale per Paul Greengrass, indiscutibilmente uno dei registi di cinema d’azione più abili del panorama contemporaneo.
Come il film che lo aveva rivelato nel 2002, Bloody Sunday, il racconto ricostruisce infatti un sanguinoso fatto di cronaca (in questo caso, la strage di Utøya avvenuta nel 2011 che, complessivamente, costò la vita a 77 persone), dietro il quale si intravedono complesse questioni politiche. In realtà, il regista inglese ha scelto di affrontare il tema (che quest’anno è già stato oggetto di un altro film, Utøya 22. Juli del norvegese Erik Poppe, presentato a Berlino) in modi un po’ differenti da quelli che ci si aspetterebbe da lui.
Dopo aver molto brevemente illustrato la meticolosa preparazione degli esplosivi e delle armi, lasciandoci con pochi tratti intuire la personalità dell’autore della strage, Anders Breivik (il rapporto distaccato con la madre, unica persona con cui, apparentemente, ha qualche contatto), il film arriva subito all’esecuzione della strage e vi dedica uno spazio piuttosto ridotto. Questa, d’altra parte, assume l’aspetto di un tiro al bersaglio di fredda e meccanica esecuzione.
Gran parte del film è dedicata piuttosto a due sviluppi successivi della trama. Vediamo così il processo di recupero e riabilitazione, fisica e soprattutto psicologica, di uno dei ragazzi feriti nel corso della strage. E poi il confronto tra il fanatico assassino e l’avvocato, attivista di sinistra e convinto assertore dello stato di diritto (e quindi delle garanzie di imputati e condannati, per quanto odiosi siano i crimini per i quali sono stati accusati o giudicati). Entrambi questi sviluppi servono a portare a una conclusione improntata alla speranza. Il ragazzo recupera il suo equilibrio grazie al calore degli affetti che lo circondano (mentre l’assassino scopre di vivere nel completo isolamento – al momento decisivo, i rapporti virtuali con i suoi compagni di battaglie politiche si dissolvono rapidamente). Questo contrasto, che lo stesso ragazzo esplicita durante la deposizione in tribunale, conduce l’avvocato alla certezza che lo stato liberaldemocratico non possa che avere la meglio su fanatici isolati e privi di un reale retroterra sociale che li sostiene.
L’approccio adottato da Greengrass, più “psicologico” e meno adrenalinico del solito, lascia qualche dubbio sia dal punto di vista della tensione cinematografica sia da quello della lettura politica. Abilissimo nel creare tensione in scene concitate, Greengrass aveva in genere saputo evitare, o comunque ridimensionare, la trappola della retorica e della commozione. Le scene dialogate nelle quali – come accade per gran parte della durata di 22 July – si segue l’evoluzione psicologica dei personaggi, non sembrano invece essere un tipo di situazione che rientra fra corde che più gli appartengono (e infatti risultano convenzionali, prevedibili e fondate su contrasti e sviluppi elementari).
L’ottimismo che impronta la lettura politica dei fatti appare poi di maniera. Si vorrebbe condividere la granitica certezza dell’avvocato sulla vittoria della democrazia, ma ripensando, sette anni dopo, alla strage e ai deliranti proclami di Breivik, diverse circostanze suggeriscono piuttosto qualche nota di pessimismo in più.
Basterebbe guardare il documentario di Errol Morris su Steve Bannon, American Dharma, passato a Venezia in questi giorni, per convincersene. Ascoltando l’(ex-)ideologo di Trump, infatti, non poche sono le assonanze di fondo che emergono tra le sue parole, non prive di ironia e di sottigliezza argomentativa, e quelle, declinate in chiave più brutalmente paranoica, di Breivik (la denuncia di un’élite che avrebbe spodestato il popolo dei suoi poteri democratici, la necessità di bloccare con decisione l’immigrazione e di difendersi dalla minaccia della società multiculturale, l’auspicio di un radicale cambiamento, una vera “rivoluzione”, delle società democratiche). La semplice lettura dei giornali ci dice che i proclami di Breivik, ripuliti dei loro accenti più esplicitamente violenti, trovano oggi – nel successo di varie forze populiste e di estrema destra in varie parti del mondo – una diffusione e una legittimazione nel dibattito pubblico che sette anni fa non avevano.
Ed è per questo che la certezza di 22 July circa gli anticorpi delle odierne liberaldemocrazie rispetto al fanatismo e alla violenza appare più un semplicistico wishful thinking che una convincente lettura della realtà.