Ci risiamo. La confessione, la memoria, la responsabilità, l’onere della prova. Ci sono tutti gli ingredienti che praticamente da sempre reggono il cinema di Atom Egoyan, declinati in ordine sparso, cucinati, in questo suo Guest of Honour. Eppure anche con gli ingredienti consueti e la migliore delle ricette il polpettone può uscire dal forno un po’ indigesto, o comunque con il retrogusto metallico del prodotto preconfezionato.
La musicista e insegnante Veronica (Laysla De Oliveira) si prende carico delle esequie di suo padre, Jim (David Thewlis), inflessibile ispettore sanitario nella ristorazione; il suo tentativo di rendicontarne l’esistenza, “il cammino spirituale”, a Padre Greg (Luke Wilson) diventa il pretesto drammaturgico per il più ovvio dei flashback. O, meglio, in nessun film del regista canadese un flashback è ovvio, perché la memoria è di per sé parziale e fallosa, e, anche in questo caso, la testimonianza di Veronica al prete è solo una delle tracce di questo volgere lo sguardo indietro che consegna allo spettatore una prima verità, combinata con gli elementi di una narrazione presunta onniscente, in cui le conseguenze del senso di colpa della giovane donna, che scopriamo progressivamente essere stata in carcere, vengono acquisite come dato di fatto.
Man mano che il flashback di Veronica procede, su livelli temporali differenti, come in un meccanismo di matrioske ingannevoli, crediamo di familiarizzare con il padre e i suoi tic, con la madre morta da anni di cancro, con la sua prima insegnante di musica, con il suo primo amore, finito tragicamente; seguiamo la sua tournée con l’orchestrina degli studenti, affascinati dal suo talento (a onor del vero abbastanza relativo) e stregati dalla sua bellezza; e crediamo di aver capito tutto quando il più baldanzoso tra di loro fa il primo passo. Ma non abbiamo capito niente, e lo gnommero è un tantino (ma non troppo) più contorto.
L’obiettivo di Egoyan è, come sempre, smontare l’attendibilità del narratore, del reo confesso, del personaggio, o, perlomeno, metterla seriamente in discussione, dopo aver usato a proprio vantaggio i meccanismi fiduciari dello storytelling; e chi conosce il suo cinema sa di doversi aspettare un twist, un rivolgimento, o almeno una correzione del tiro rispetto alla versione di Veronica; che forse le cose non sono andate come lei crede di ricordarle, che forse il suo senso di colpa ha distorto la sua memoria, avviandola a un percorso autopunitivo; che le colpe di suo padre magari sono un po’ diverse da quelle che lei si è sempre figurata; che solo il suo coniglio Benjamin, bianco e obeso, schiattato di vecchiaia alla veneranda età di sedici anni, è una creatura davvero innocente.
Come di consueto, in questo procedimento di analisi retrospettiva dei personaggi, il regista canadese si affida agli espedienti della memoria artificiale, ai filmati di famiglia, agli orari d’invio dei messaggi dai cellulari, ai video da smartphone. Ma forse i tempi sono cambiati più rapidamente del suo cinema, e questa categoria di prove digitali è ormai entrata di diritto anche nella più banale delle serie tv. E il rischio è che resti poco di originale, nella casseruola di Egoyan: non vuol dire, però, che sia tutto da buttare.