A Quiet Passion è la storia modesta di una vita semplice, un film biografico che tuttavia, come la sua protagonista, la poetessa Emily Dickinson, non rinuncia all’incanto e alla meraviglia.
«La mia vita è trascorsa come un sogno», confessa la madre di Emily, e tale sembra essere l’atmosfera sospesa del film, come inglobata in una bolla onirica dove i desideri, tanto bramati quanto temuti, si manifestano quasi palpabili su un’aria cantata che echeggia nei luoghi della solitudine. I luoghi dell’universo sempre più angusto che Emily abita; un mondo che si restringe con la scomparsa delle persone care, con la perdita graduale della speranza e con l’accettazione dell’abitudinario.
È, però, anche un mondo caldo e domestico, illuminato dal camino acceso e saldato dai legami familiari e amicali con persone affini – o, al minimo, comprensive. È il tipico ambiente dell’infanzia quello in cui Emily pare bloccata, in una sorta di sindrome di Peter Pan che le impedisce di cercare qualcosa oltre la propria dimora, la propria famiglia, quella “home” che l’accoglie benevola dopo gli anni sofferti di scuola religiosa.
Ed è lo stesso luogo e la medesima atmosfera che emana dalla sua poesia, accusata di banalità e così somigliante alle filastrocche per bambini, versi a rime chiare che scandiscono un ritmo innocente come la visione del mondo della loro genitrice. Un’innocenza non ingenua, tuttavia, bensì consapevole e consapevolmente abbracciata, nonché macchiata del carattere intrinsecamente ribelle della poetessa, proponendo una prospettiva, una forma e una poetica che poco hanno in comune con il cronotopo in cui è calata.
La ribellione giovanile di Emily, innocente perché puramente intellettuale e spirituale, al pari del suo animo è immune all’invecchiamento, ma si gonfia realizzando suo malgrado il triste destino annunciatole dalla vecchia istitutrice Miss Lyon: «Lei è sola nella sua ribellione, signorina Dickinson». È una spirale eterna quella che si prospetta, un isolamento quasi auto-imposto, perché una donna può essere solo silenziosamente ribelle e tuttavia rimanere sola, oppure cedere e conformarsi, arrendersi, in una guerra (perché «di guerra si parla quando si parla di donne») già persa in partenza, alla mansuetudine e all’obbedienza - cose che, rimarca il padre, somigliano molto alla schiavitù.
Eppure la libertà ha un prezzo: l’accettazione di una vita sola, una vita di monotonie e di routine, «l’unica concessione che Dio fa a chi è senza speranza». Se lo spazio del film tende a restringersi e chiudersi, in rima all’isolarsi della protagonista – che dal mondo esterno alla propria città natale finisce per essere confinata nella propria camera da letto – è un movimento uguale e contrario quello che scaturisce dalla sua poesia, che del film si fa narratrice onnisciente – perché postuma – e coro (solista) a commento degli accadimenti biografici. È infatti un processo induttivo, dal particolare al generale, dal piccolo al grande, quello che genera l’esperienza limitata della poetessa per parlare il linguaggio universale dell’amore, del dolore, della solitudine e della morte.
E, parallelamente, esiste una tensione analoga che dall’arte si apre alla vita: è la letteratura legata all’esistenza della famiglia Dickinson. Ed è lo stesso film di Terence Davies, che di Emily mostra la storia senza mai tradirsi, fino alla lenta metamorfosi finale del suo volto, che richiama quella iniziale tra le due attrici Emma Bell e Cynthia Nixon, mostrando però la persona reale. Dall’arte alla vita, dal cinema alla realtà.
D’altra parte la poesia di Dickinson è proprio questo, «la bellezza della verità». Una poesia salda, un’arte senza compromessi, attuale ora più che mai. E benché una reputazione postuma sia «riservata a coloro che non vale la pena ricordare in vita», la vita di Miss Dickinson, ora, vale la pena di essere raccontata. E raccontata in poesia, come il film di Davies.
La storia della celebre poetessa statunitense Emily Dickinson dagli anni della trasgressiva giovinezza alla vita adulta di auto reclusione.