Sta tutto nel titolo il senso di questo ultimo (?) tassello della terza fase del Marvel Cinematic Universe: Endgame, ovvero, fine dei giochi. Proprio sul concetto di fine e di gioco si basano infatti le tre ore di funambolico racconto dirette dai fratelli Russo. Basti pensare ai primissimi minuti del film, quando Clint Barton sta giocando con la sua famiglia (chi a baseball, chi a tiro con l’arco) e improvvisamente si trova solo con i suoi familieri finiti dal potere di Thanos, appunto. Nello stesso solco, seppur in modo meno letterale, si inserisce anche la scelta di Tony Stark di farsi da parte per l’ultima missione; si tratta del livello più arduo da superare ma ormai la sua priorità è altrove, è
la famiglia. Così come il dio del tuono, Thor, ormai ridottosi a bere birra in casa e giocare (di nuovo) ai videogames. Addirittura è Thanos stesso, l’antagonista del film, a ritirarsi poiché nel capitolo precedente (Avengers: Infinity War) aveva già raggiunto lo scopo che si era prefissato.
Ma se tutti sono d’accordo nel gettare a terra le armi, sia buoni che cattivi, chi è che si ostina costantemente a non voler abbandonare queste storie, questi mondi? Da qui i fratelli Russo sono partiti per realizzare il loro progetto più ambizioso ed epico, il loro giocattolone più complesso e spettacolare. La risposta è il pubblico di fan che in oltre dieci anni di cinema e decadi di fumetti ha popolato e continua ad alimentare un universo fatto di nuvole parlanti e sogni utopici nel quale tuttavia trova conforto e serenità. Avengers: Endgame è pensato e realizzato apposta per le esigenze di chi, con questi personaggi, ha trascorso molte ore della propria esistenza e non ha la minima intenzione di apporvi la parola fine. Il film è un grande, appassionato e coinvolgente gioco finalizzato a un ultimo saluto nei confronti di una saga e di tutti i protagonisti che l’hanno popolata, sia sullo schermo (in tal senso è più che giustificato il commiato dei titoli di coda, molto più simile al classico ricordo In Memoriam che si vede ogni anno durante la cerimonia degli Oscar che a una sequenza di titolazione della Marvel) che al di fuori di esso.
Il cinema dei fratelli Russo, tuttavia, riesce a dare garanzie agli spettatori più "esigenti" (come dimostrano i tanti momenti di esaltazione da nerd presenti soprattutto sul finale), ma prova anche ad andare oltre. Avengers: Endgame infatti non è solamente una macchina spettacolare, ma cerca di addentrarsi in qualcosa di più serio, più profondo. La fine del gioco, quindi, la si può intuire anche da un punto di vista stilistico, non solo narrativo. In tal senso è decisamente curiosa la durata poco accomodante del progetto (181 minuti), ma a maggior ragione lo è l’andamento prolisso e verboso della prima parte. Così come la stratificazione parallela del secondo atto in cui la narrazione si dirama completamente su più livelli (proprio come un gioco a premi) che da un lato funzionano benissimo per restituire malinconicamente l’omaggio ai vari tasselli della saga che hanno preceduto questo, dall’altro conducono il film in un campo di Nolaniana memoria in cui lo sguardo dello spettatore rischia di smarrirsi. Si alza l’asticella in Avengers: Endgame: non si tratta più solamente di un gioco ma di dar corpo a un’idea filmica più matura e cosciente. La stessa intuizione che attanaglia i singoli individui del dream team, uomini (prima ancora che super e/o eroi) che sognano una vita normale, bramano la fine del gioco e cullano l’idea di un’esistenza basata sul semplice, comune, ma proprio per questo straordinario e salvifico, amore domestico. Game over.
Dopo gli eventi devastanti di Avengers: Infinity War (2018), l’universo è in rovina per via delle azioni del Titano Pazzo, Thanos. Con l’aiuto degli alleati rimasti, gli Avengers dovranno tornare ancora una volta insieme per annullare le azioni di Thanos e restaurare l’ordine nell’universo una volta per tutte, a costo di ogni conseguenza che potrebbe portare