Prova a chiedere chi sei al miglior cinema hollywoodiano contemporaneo, e ti risponderà generalmente che sei, prima di tutto, e che devi essere, prima di qualunque altra cosa, una persona. Vedi Sully. Vedi La battaglia di Hacksaw Ridge.
Non è una novità: tutto il cinema della New Hollywood credeva fortemente nell’individuo, anche a costo di piegarlo, di metterlo in ginocchio, spezzargli le ossa, spappolargli le generalità. Erano gli anni della disillusione e della ribellione, e si finiva quasi sempre da soli, vivi o morti.
E oggi? Siccome non è più tempo di New Hollywood (ma se quella degli anni Ottanta era la New-New Hollywood, l’odierna cos’è?), però è ancora tempo di eroi (o di antieroi, che fa lo stesso), è difficile che il singolo abbandoni il gruppo. Cioè il suo essere parte di un tutto, di una collettività, di un sentire e di un vedere comuni. Poi certo c’è un tutto più grande e un tutto più piccolo, ci sono il sistema e l’establishment, che sono lo show business istituzionale, e poi c’è una pluralità quale sodalizio di pensiero, concordanza ideologica, gruppo unito, ma il discorso non cambia: la contestazione è un fenomeno destinato all’introspezione, una disubbidienza di coscienza, e non un gesto decisivo, non un’azione violenta. Nessuna rivolta, casomai una perseveranza. E un’intelligenza.
Ah, quanto c’è bisogno di intelligenza nel cinema hollywoodiano contemporaneo. Un’intelligenza risoluta che emerga sull’età anagrafica e che non rinneghi un’appartenenza. Scegliere per sé non significa emarginarsi, è una decisione di campo, una decisione politica e insieme di spettanza. Non un discrimine, neppure una banale separazione, direi piuttosto una valutazione, anzi, una valutazione identitaria, per farla diversa, l’identità, per farne una differente che possa fare la differenza.
Una questione di valori, insomma. Ancora loro. Sempre loro. Perché forse per ritrovare il sé migliore, per fare i conti con il mondo, per elaborare il lutto della società dello spettacolo, bisogna rivederli e riapplicarli, questi benedetti valori. Allora c’è il caso che si possa fare la differenza, appunto. In questo film così altmaniano senza fare Altman, un saggio di regia magistrale (in 3D e 120fps) sull’eccezionalità come distinguo nella trama del mondo e dalla trama del mondo, sul necessario personalismo dell’individuo in quanto irripetibilità focale, dove il contesto è solo un fondale dipinto, dove la massa è una premeditazione, un calcolo, un’operazione a tavolino, e dove il fuori fuoco è la proporzione da conquistare per capire meglio, in questo film che sbriciola il corso naturale degli eventi in uno stream of consciousness delle emozioni ma anche visivo, dischiuso, scoperto, l’essere presente alla realtà è un atto di guerra soprattutto con se stessi. L’esito non è né una sconfitta, né una vittoria: è la presa di coscienza di dover vestire, che lo si voglia o no, i panni trasparenti del fantasma.
In Billy Lynn - Un giorno da eroe, il film più profondamente, intimamente, correttamente e precisamente americano degli ultimi anni, che come Foxcatcher - Una storia americana mette in scena cosa significa davvero appartenere all’America, essere nell’America, guardare il manifestarsi di un Paese che è sempre più malauguratamente Grande, avere giudizio e buon senso vuol dire abdicare a esserci.
Come Mark Schultz nello straordinario dramma di Bennett Miller, e come Luther Whitney del sempre più giusto Potere assoluto di Clint Eastwood, anche il soldato diciannovenne Billy Lynn è un ectoplasma in una folla sepolcrale di cadaveri. Non ingannino i fuochi d’artificio e le Destiny’s Child, le parate e gli squilli di tromba: sono tutti morti, ben più di quelli sul campo a Al-Ansakar; sono morti i magnati e le cheerleader, le madri e i padri, i padroni e i galoppini (e che geniale casting per i ruoli di Steve Martin e Chris Tucker, due cadaveri di cera, immobili anche quando parlano, defunti dentro e fuori, loro che hanno costruito carriera e successo su un volto di gomma). E come fantasma, in persistente soggettiva figurata, ostinata e implacabile, Billy Lynn si muove in una landa sontuosamente desolata dove tutto è forse soltanto un sogno sognato, un’allucinazione incubizzata, una ricostruzione, l’immaginazione della realtà, un concepimento fantastico, un’ipotesi atroce.
Però, lo ribadiamo, non è più tempo di New Hollywood; quell’I love you ripetuto in chiusura (chissà come l’avrà tradotto il doppiaggio? Ti voglio bene? Ti amo? Ti stimo?), in fila, di fila, I love you, I love you, I love you, non è nient’altro che l’esigenza dell’uomo, così scopertamente debole e così prepotentemente privato, di non convenire a nessuno ma di aderire a qualcuno, un amico, un compagno d’armi, a sé, prima che sia troppo tardi, prima che abbia la meglio l’orrore vero, e in particolare prima che i sentimenti – intesi anche come forma di virtù, coerenza valoriale – perdano di importanza.
Il 19enne Billy Lynn è uno dei membri della squadra Bravo, rsa famosa da una coraggiosa azione di guerra in Iraq immortalata dalle telecamere. Trasformati di colpo in eroi nazionali, Billy e i suoi compagni sono da due settimane in tour per gli Stati Uniti, fra tv locali e comparsate. Culmine del tour, è la presenza della squadra come ospite d'onore durante l'halftime show di una partita di football del Giorno del Ringraziamento, allo stadio di Dallas. Billy Lynn sa bene cosa è successo in Iraq, ha visto morire il suo capito e soprattutto sa che la realtà della guerra contrasta totalmente con l'idea che se ne è fatta il pubblico americano.