Ci sono almeno tre film diversi dentro Dawson City – Il tempo tra i ghiacci. Tre storie che hanno tutte a che fare con il cinema e che del cinema sono a loro modo declinazioni, espressioni, riflessi. Il documentario di Morrison – che potrebbe essere riscritto e ricostruito in innumerevoli modi, perfino come una trilogia o un film dell’orrore – è una storia di fantasmi, di morti che tornano in vita ed è un viaggio nella memoria di un tempo perduto di cui il cinema è vero e proprio medium. Inteso nel senso esoterico di qualcosa che è in grado di resuscitare i defunti. Ma è anche la storia di una colonizzazione. La storia del capitale che assoggetta gli spazi alle proprie regole, che condiziona i rapporti fra gli individui e che utilizza il cinema come strumento di “umanizzazione” e attraverso cui modellare la società a propria somiglianza.
Lo spunto da cui parte Dawson City è il ritrovamento, avvenuto sul finire degli anni Settanta, di una innumerevole quantità di pellicole cinematografiche sepolte in una vecchia piscina (interrata) nella città di Dawson, regione dello Yukon, estremo nord del Canada. Queste pellicole, risalenti agli anni Dieci e Venti, erano state inviate dai distributori per essere proiettate al cinema della città. La norma prevedeva che una volta esaurite le repliche, i rulli dovessero essere rispediti al mittente, ma data la difficoltà dei collegamenti con lo sperduto Yukon, era molto più economico disfarsi in loco di tutte le pellicole che via via si accumulavano. Il grosso del materiale fu gettato nei fiumi Yukon e Klondike, che proprio a Dawson confluiscono, ma una certa quantità, appunto, fu interrata nella vecchia piscina comunale. Recuperati e restaurati questi film – quasi 500 – sono raccolti oggi nell’archivio cinematografico canadese e nella Biblioteca del Congresso degli Usa.
La cronaca e il resoconto del ritrovamento, del restauro e della conservazione e successiva digitalizzazione delle pellicole, che occupa una buona parte del film, è la storia di una vera caccia al tesoro. Nel luogo in cui vennero scoperti i più ricchi giacimenti auriferi del pianeta è stato infatti trovato e portato alla luce – esattamente con le stesse modalità dei cercatori d’oro, e cioè scavando – un tesoro altrettanto inestimabile. Pellicole ammucchiate e impastate con la terra di cui per anni non è importato a nessuno, hanno cominciato a suscitare l’interesse di alcuni addetti ai lavori sino a che, grazie ai finanziamenti dei governi canadese e statunitense, si è cominciato il lungo lavoro di recupero. Un lavoro talmente appassionato, accurato e complesso da richiedere più di dieci anni per essere completato e che ha fatto sì che i due responsabili principali del progetto – Michael Gates, curatore delle collezioni per la Parks Canada Operation, e Kathy Jones, curatrice del Dawson Museum dal '74 all'86 – abbiano finito per diventare marito e moglie. Aggiungendo alla storia un risvolto romantico che è anche in grado di far scorgere il profondo attaccamento e la grande emozione che il cinema, a tutti i livelli, è in grado di suscitare.
Il motivo per cui tante pellicole furono spedite, nei primi del ‘900, per essere proiettate nel cinema di un luogo così isolato è che Dawson City fu il centro geografico della grande Corsa all’oro del Klondike. Fra il 1897 e il 1905 un villaggio di poco più di quattro case si trasformò in una città di oltre 40000 abitanti (il maggior agglomerato urbano di tutto il Canada nord-occidentale) calamitando attività di ogni genere e specie, comprese quelle illegali. Morrison si sofferma a lungo sull’esplosione demografica della città e sulla Gold Rush, inserendo numerose didascalie e utilizzando spezzoni delle pellicole recuperate nella piscina (che portano i segni del tempo e sono offuscate da una sorta di fumo bianco) e decine di splendide fotografie d’epoca.
È qui che inizia il secondo film. La storia della nascita di una città che è anche la nascita di una nazione e la genesi del secolo breve della modernità, è un viaggio dentro la memoria collettiva. Nella descrizione della corsa all’oro esistono e sono canalizzate sotto forma di metafora buona parte delle istanze e degli stigmi che dipingono l’ascesa del capitalismo novecentesco. Il cinema, come il treno prima di lui, diventa molto in fretta, dal 1895 in poi un simbolo tecnologico dalla portata esiziale. La conquista del deserto, lo spostamento della frontiera verso est già sperimentata nell’Ovest americano – che il cinema avrebbe consacrato sotto forma di mitologia a partire dagli anni Dieci del XX secolo – sembra continuare nel Nord del continente americano con le medesime modalità. L’esplosione di agglomerati urbani come quello di Dawson quale conseguenza della corsa all’oro, è anche in senso più allargato, il compimento di una parabola – tipicamente western – dell’assoggettamento della natura da parte dell’uomo. Il dominio attraverso il possesso, l’esercizio di tutta una serie di strutture di potere che regolano i rapporti e che proprio nella civilizzazione di un enviroment selvaggio trovano compimento. Non è un caso che, come ricorda Morrison nel film, proprio ai tempi della Gold Rush, al periodo in questione e alla città di Dawson, si facciano comunemente risalire le origini della ricchezza della famiglia Trump. Il nonno di Donald, Frederick, da poco immigrato dalla Germania costruì infatti una piccola fortuna scavando oro nelle valli ghiacciate dello Yukon.
Il ruolo del cinema non è dunque affatto trascurabile in questa affannosa voglia di progresso. Come dispositivo tecnologico, quasi fantascientifico, che corre veloce e scandisce il tempo con il ticchettio del rullo che gira, il cinematografo incarnava perfettamente il senso di modernizzazione sotteso alla creazione di questa società regolata dalle logiche del capitale che in una declinazione umanista trova in lui l’alleato più fedele e il medium più infallibile.
E a proposito di medium, è proprio il terzo film che sta dentro Dawson City quello più suggestivo di tutti. Le pellicole (dis)sotterrate infatti, per via del nitrato di cellulosa (comunemente detto fulmicotone) del quale erano fatte, erano estremamente infiammabili e diedero origine, durante gli anni in cui furono stipate nei magazzini della città, a numerosi e dannosissimi incendi che contribuirono a semi distruggere Dawson. Questa natura potenzialmente distruttiva della pellicola, generatrice di una vera e propria “cinefobia”, è messa in risalto nel film come una sorta di potere medianico, capace di sopravvivere alla morte e di dare vita ai fantasmi. E quel fumo bianco, sorta di nebulosità spettrale, che circonda le pellicole ritrovate, sembra esserne il sintomo più evidente. Dissepolti dalla loro tomba come veri e propri cadaveri i film di Dawson sono zombie, fantasmi, spettri che hanno una triplice valenza. Non solo essi vivono oltre la morte facendo della propria presenza l’incarnazione (corporea) di una memoria cinematografica che si pensava perduta, ma come esseri che tornano dal mondo dei morti sono ancora in grado di seminare paura e distruzione. La pericolosità del fulmicotone sperimentata ai tempi della corsa all’oro esiste ancora oggi, motivo per il quale si sono dovute prendere delle misure di sicurezza straordinarie (come il trasporto via terra, in luogo della meno sicura spedizione aerea) nel trattare tutto il materiale. E come fantasmi, infine, queste pellicole possono ancora infestare le coscienze, le vite e i destini delle persone, oltre che i luoghi (Dawson è una città infestata!), causando ossessioni e condizionando il modo in cui il cinema sarebbe stato conservato, distribuito, diffuso e guardato fino ad oggi.
Dentro le immagini dei film recuperati a Dawson stanno non solo la memoria e la traccia del cinema muto, ma la vera essenza magica e spirituale della settima arte. Che è nata nello stesso anno della corsa all’oro e in fondo un po’ nello stesso modo: come una scommessa, un gioco, un’ossessione della quale ci si ammala.
Il film ricostruisce la storia della cittadina del Canada protagonista del sogno collettivo della corsa all’oro, insieme al ciclo vitale delle pellicole ritrovate.