C’è una zona di confine spesso oscura e difficile da comprendere e da vivere in cui l’amore e l’amicizia si mescolano alla sessualità e al coinvolgimento del corpo, allo scambio dei fluidi e alla vertigine dei sensi. Se in questa zona intervengono poi la fede, il dovere, il rispetto per le regole e il senso di appartenenza a una comunità come fattori confinanti la libertà personale, le cose si complicano ulteriormente. È questa la zona in cui si addentra Sebastián Lelio nel suo film (il primo in lingua inglese) che ancora una volta, con grande precisione e sensibilità umana, parla di responsabilità verso la propria identità.
Come già in Una donna fantastica lo spazio che il regista cileno crea intorno ai suoi personaggi è rigidamente organizzato; linee che si incrociano, strade, vie, muri e scale, corridoi e piani che sistemano, collocano, inquadrano il reale come fa la stessa Ronit guardando nel mirino della sua reflex. Mentre lei cerca di cogliere lo scarto del soggetto che inquadra, il mondo dal quale proviene e al quale ritorna – indesiderata – per la morte del padre, il rabbino capo della comunità, cerca invece in tutti i modi di normalizzare quello scarto semplicemente negandolo o, come nel suo caso, respingendolo.
Ronit ha infatti lasciato la comunità ebrea ortodossa di Londra anni prima per trasferirsi a New York e vivere liberamente la sua vita. Non senza costi. Ma di tutto questo Lelio, come sempre, non racconta nulla o quasi, preferendo lasciar emergere le cose attraverso i personaggi che con la mimica, le intenzioni dei gesti, le interazioni degli sguardi costantemente giocati sulla sfumatura, sul dettaglio, sulla suggestione compongono il quadro della storia.
Ronit ritrova in Inghilterra i suoi due amici del cuore, Dovid, il pupillo del padre da sempre innamorato di lei, e Etsi, ora diventata la moglie del giovane rabbino, che si rivela essere il suo amore giovanile. Tutto qui quello che è dato sapere. Ma i frammenti si accumulano con il procedere del film a cominciare dall’arrivo di Ronit, per continuare nel primo pranzo londinese in cui si intuiscono gli equilibri o meglio i disequilibri in gioco. Con l’attenzione alle piccolissime cose che gli è propria, Lelio confida agli attori, a uno sguardo di traverso di Ronit, a un minuscolo sorriso che si accenna sulle labbra di Etsi, al compassato ma inquieto silenzio di Dovid, tutto il potenziale deflagrante del non detto. Di pari passo lascia molto fuori campo (o quasi) come nella scena di sesso tra Ronit ed Etsi, intensa, conturbante eppure suggerita con i corpi delle due donna quasi mai inquadrati per intero. Mai nudi per davvero.
Ma ci sono anche momenti in cui le cose si esplicitano. Come nei due monologhi rabbinici, due orazioni tenute davanti alla comunità ma anche due testi che dialogano tra loro. Nel primo il padre di Ronit, prima di essere colto dal malore che lo ucciderà, inquadrato da vicino con Dovid sfocato in secondo piano, sottolinea cosa posiziona l’uomo a mezza via tra gli angeli e le bestie: il potere della scelta che, dice, è al contempo un privilegio e un fardello. Nel secondo invece, è il giovane rabbino a parlare davanti alla stessa comunità con lo spirito del vecchio rav che aleggia nella sinagoga, in mezzo alle note dei canti, ai libri e ai piani che separano gli uomini dalle donne. Inquadrato camera a mano, con la regia che ne sottolinea tutta l’incertezza e l’improvvisa difficoltà avvicinandosi al viso inquieto e poi allontanandosi subito con il fuoco che va e che viene, Dovid prende la scena citando il discorso dell’anziano predecessore ma spostando la cifra che caratterizza la libertà di scelta dal dovere alla tenerezza. Nelle sue parole che legittimano in pochi istanti la scelta di Ronit di andarsene, quella di sua moglie di restare e anche la sua di rifiutare la successione, scegliere è vivere, l’atto più giusto e umano che ogni individuo possa compiere verso se stesso.
In mezzo a queste due scene, a queste due diverse interpretazioni del senso profondo del libero arbitrio, stanno due ragazze che finalmente sole, in una casa vuota, muovono la testa all’unisono, in silenzio, senza neppure guardarsi, ma abbandonandosi al ritmo di una insperata madeleine: Loveseong dei Cure le riporta al passato manifestando, a loro e a chi guarda, l’amore che le lega, nonostante tutto.
In fondo questo interessa a Lelio: costruire intorno ai suoi personaggi un mondo ortogonale e raccontare come questi ne possano scompaginare la precisione formale semplicemente muovendosi, parlando, guardando; un mondo fatto di regole dove, indipendentemente dal genere, dalle inclinazioni, dai gusti, chi prova a tenere le redini della propria vita, camminando deciso, provato eppure forte della propria resilienza e della fiducia nella propria identità può essere libero.
Ambientata nella comunità ebraica ortodossa della Londra contemporanea, la storia di Ronit, fotografia newyorchese emancipata e anticonformista, che torna a casa per i funerali del padre, rabbino che ha rinnegato la scelta di libertà della figla. Ronit ritrova Esti, con cui ha avuto un amore giovanile, ora sposata con suo cugino. Tra le due donne si riaccende una passione proibita.