Il più recente cinema di Brian De Palma – quello che raccoglie titoli quali Omicidio in diretta, Femme Fatale, Redacted, Passion – è puro cinema dello sguardo: come atto fondativo dell’azione o del diniego e paradossalmente negazione di se stesso.
Frustrato, esploso, menzognero, lo sguardo in De Palma è programmaticamente in affanno nel ritrarre integralmente il vero: è soggettivizzato, parziale nella percezione e castrato nel darne interpretazione, critico nella rappresentazione di una contemporaneità tanto riprodotta – con l’ineludibile e significante predominio del mezzo tecnologico di riproduzione e osservazione – quanto irrappresentabile. Teoria che si fa prassi laddove puntualmente De Palma, sempre più spesso ricorsivo nella propria scrittura, rende scivolosi e complanari gli elementi filmici e profilmici, ancora prima della manipolazione del montaggio, nella costruzione del racconto: una grammatica spesso giustissima che genera un portato di senso sufficiente a superare l’ovvietà di una storia che spesso è solo un corpo ospite.
Pur non scritta da De Palma, anche la sceneggiatura di Domino, film martoriato e povero di risorse, è un contenitore in cui brillano le chiose interlineari del vecchio maestro: la sua verve, il proprio codificato gesto, piccoli elementi aforismatici alla ricerca di un senso, sono persi nella narrazione un po’ pedante di Petter Skavlan. Nell’ordito di intrighi, fra attentati terroristici e occulte mosse della Cia, De Palma procede – forse senilmente – con la sua tipica atomizzazione dei punti di vista, e non si lascia sfuggire l’occasione di porsi, ancora una volta, interrogativi sulla rappresentazione e manipolazione figurativa del reale, caposaldo della sua autorialità che ha radici, nell’inverso, lontanamente godardiane.
Come già in Passion, possibilmente con meno rispondenza interna fra costruzione e senso, De Palma piega a suo piacere la sceneggiatura per porre in dubbio, o ridefinire ulteriormente – come momento di un discorso che non ha ancora un punto fermo – la rappresentazione di primaria o diretta del reale: chi agisce nel film è portato a cogliere col proprio sguardo una realtà quasi sempre di secondo grado, sdoppiata ma non gemellare, filtrata e (ri)trasmessa da ogni possibile mezzo di riproduzione, da ogni strumento di rimando cui rivolgersi con ossessione, confezionata ad arte o rappresentata con mendacia secondo necessità opportunistiche o criminali; a questa si concede forte credito fino quasi a sostituirla a una osservazione diretta e consapevole. L’agire fattuale, quindi, è più spesso orientato alla più diffusa disseminazione artificiale (l’effetto domino), che passa attraverso la costruzione o la distruzione dell’immagine perché questa sia resa più subdola di una realtà già di per se stessa spaventosa. Nel film, di conseguenza, i componenti della cellula terroristica si apprestano a compiere gli attentati in stretta funzione delle possibilità rappresentative, col tramite di una vera e propria regia cinematografica (l’uso di un drone, campi e controcampi, soggettive, split screen) a formare uno storytelling di morte destinato alla viralità della rete non live, ma mediato da un montaggio narrativo.
Chi sembra più intossicato da una proliferazione digitale che rende la realtà più complessa e inafferrabile sono gli investigatori (Nikolaj Coster-Waldau e Carice van Houten): pur affrontando la minaccia terroristica a vantaggio della sicurezza comune, tendono progressivamente a chiudersi in sé stessi, all’incomunicabilità o al silenzio volontario – e dunque all’inganno reciproco – distratti dagli spettri melodrammatici della propria vita e da un sofferto senso di vendetta. Il modus operandi della loro indagine è da subito svuotato di ogni vividezza e personalità, e si muove anch’esso, sempre più frequentemente, fra i riflessi degli schermi, fra contatti telefonici, riconoscimenti facciali, video sorveglianza, analisi dei contenuti video. Mentre gli organi di intelligence operano su binari paralleli all’insegna del più gretto individualismo che molto ha dell’egoistico, fino a uno scontro finale falsamente risolutivo e per nulla consolatorio.
Benché sostanzialmente positiva, e anche considerando una generale carica di humor nero ben salda nel cinema depalmiano, la chiusura trascina infatti il peso di una casualità indipendente da un agire pienamente cosciente: anche questa è una caratteristica non inattesa nel cinema di De Palma, laddove – come anche qui accade, in una sequenza propria del suo stile – si tende a far convergere, con forte suspense, linee d’azione differenti.
E grava, impalpabile, una complessiva cupezza, suggerita oltre l’aspetto fortemente digitale del film; e fra i protagonisti un sinistro senso di solitudine, o di fiera autosufficienza, che ha come naturale conseguenza l’assenza di un orizzonte comune che leghi anziché spingere all’isolamento.
Christian, un poliziotto dell'unità crimini speciali di Copenaghen, cerca giustizia per l'omicidio di un suo collega. Insieme alla collega Alex, una poliziotta del suo stesso distretto, si imbarca in una caccia all'uomo di carattere internazionale per trovare il colpevole, affiliato ad una cellula danese dell'Isis. In una disperata corsa contro il tempo, tra Copenaghen, Bruxelles e Almeria, in Spagna, i due poliziotti dovranno scoprire i pezzi di questo delicato gioco di equilibri e allo stesso tempo salvare le loro vite.