L'esordio alla regia dell'attore americano Brady Corbet (visto in Melancholia, Funny Games, Forza maggiore) è un lavoro talmente straniante da dover riposare nell’anima e nell’inconscio dello spettatore, ingenua vittima di un lavoro tanto unico quanto profondo. Il film, ambientato nel 1919, alla fine della Grande Guerra, è suddiviso in quattro parti, chiamate allegoricamente “tantrum”, e racconta la solitaria infanzia di Prescott (un bravissimo Tom Sweet) bambino cresciuto in una gigantesca tenuta nella campagna francese, dove vive con la madre (Bérénice Bejo), fervida cattolica, e il padre (Liam Cunningham), importante diplomatico del gabinetto Wilson, intento a redigere il lacunoso e infausto Trattato di Versailles.
Sin dalle primissime scene capiamo che L'infanzia di un capo, liberamente ispirato al racconto Infanzia di un capo del filosofo Jean-Paul Sartre, non è un film che ama farsi guardare né tantomeno piacere: è un lavoro che vuole scuotere le viscere dello spettatore, catapultandolo nell’immaginario ideologico del primissimo dopoguerra, in cui la Storia partoriva solo cadaveri, rancori e futuri tiranni.
In questo senso, la pellicola riflette le emozioni che caratterizzarono il XX secolo, incanalandole negli scatti d’ira del giovane protagonista: egli non è solo testimone degli eventi ma è metafisicamente legato a essi, in un connubio insano di rabbia, odio, rancore, che si rivelerà particolarmente dannoso per gli eventi futuri, quando il bambino diverrà, in uno dei finali più criptici degli ultimi anni, un seguitissimo e osannato leader.
L’ambizione di Corbet, però, è da ricercarsi soprattutto nell’estrema manipolazione dell’immagine cinematografica che smette di essere una sterile simulazione del reale, divenendo parte della Storia e dell’emotività stessa del protagonista. Vorticosi movimenti di camera, bruschi stacchi e schizofreniche carrellate orizzontali, oltre a produrre un totale effetto disorientante nell’osservatore, sono i principali elementi utilizzati per trasporre visivamente la perturbante emotività del piccolo Prescott, metonimia del disagio di un’intera civiltà appena uscita da un conflitto, ma pronta a gettarsi nuovamente nelle braccia dell’autodistruzione.
A conferma dell’impeccabilità tecnica dell’intero lavoro si erige una fotografia eccezionale, in grado di farci respirare la decadenza del podere nel quale vivono i personaggi, ricreando un’atmosfera a metà strada tra i quadri barocchi di Velázquez e l’abissale profondità di Goya, il tutto accompagnato da una colonna sonora noise e tonitruante del compositore statunitense Scott Walker.
Lontano dalla rivoluzione del digitale, che riesce ad immergerci in uno spazio-tempo talmente patinato e perfetto da rendere immacolata la realtà, il 35mm di Corbet rompe gli schemi grazie a un lavoro visionario e avanguardistico, gettando una fioca luce sui fantasmi del nostro passato attraverso un’immagine sporca, materica, che emerge a fiotti dalla cinepresa e trasforma una semplice proiezione cinematografica in un’esperienza sensoriale, organica, epidermica, destinata a rimanere a lungo incompresa.
Il film racconta la vita del piccolo Prescott in una villa vicino a Parigi.