Apparenze. Pregiudizi. Ellissi. Ruoli e funzioni definite. È attorno a questi termini che ruota Class Enemy, opera prima di Rok Bicek, sloveno, 28 anni e una maturità sobria e sorprendente. Pellicola ambientata in una scuola. Meglio ancora: in una sola aula, entre les murs come Cantet. Pur eccedendolo. Cantet raccontava il contrasto scavando sulla realtà dei volti. Bicek racconta il vuoto facendo interagire le maschere indossate da ognuno (anche di fatto). Se la risultante di Cantet era lo scoramento della frustrazione, Bicek giunge all'elaborazione di un lutto nella riaffermazione egoistica delle proprie priorità. Quasi gattopardescamente: cambiare traumaticamente per accorgersi che tutto rimarrà esattamente com'era. Schiuma intensa formatasi al passaggio di un natante che il mare riassorbe senza alcuna traccia, come suggerito nell'ultima indicativa immagine del film.
Un insegnante rigoroso sostituisce per maternità una collega molto amata dagli allievi. I suoi metodi sono dapprima mal digeriti, poi patiti, così come la sua algida rigidità. Sabina, una delle allieve, in seguito a un confronto con l'insegnante si toglie la vita. In seguito o a causa? Il problema è tutto qui: la successione è temporale o causale? Apparenze che si rincorrono, pregiudizi che si alimentano, etichette di comodo che si appiccicano indelebilmente e si trasformano in altrettanto comodi alibi. La chiave è in un aforisma di Thomas Mann proposto come tema dall'insegnante. Thomas Mann come correlativo culturale per penetrare nel muro di dolore dei ragazzi e principio scardinatore di un sistema didattico ed educativo controverso che, da un lato, si suppone selettivo e pressante, mentre, dall'altro, funge da incubatrice per studenti e famiglie. Clienti da coccolare e soddisfare brandendo il bastone ma concedendo solo la carota.
"La morte di un uomo è meno affar suo che di chi gli sopravvive". Potrebbe essere il viatico per un melodramma, il luogo in cui si muore esclusivamente per chi rimane in vita. Ma Bicek rimuove qualunque eventualità empatica e rende oscillante il criterio della ragione, così come le possibilità di scoprire la verità. La morte diventa quindi un contenitore che ognuno tende a colmare in modo improprio, secondo le proprie esigenze, le mancanze, la grettezza. "Non tutto è bianco o nero": Class Enemy sviluppa la sua conflittualità nelle varie nuance del grigio, cibandosi delle espressioni dei personaggi, di volta in volta smarrite, dubbiose, rabbiose, ribelli, infine irrimediabilmente disorientate, e affondando in silenzi carichi di senso, ingigantito da una macchina da presa perennemente a ridosso delle figure.
Un nichilistico gioco al massacro (autoindotto) in cui non si salva nessuno e tutti appaiono colpevoli. La sceneggiatura procede per false piste che si rivelano tutte fallaci: la positività incarnata da un personaggio vira in meschinità e in miseria, la condanna morale di un altro diventa intransigenza incompresa. E ancora: l'entusiasmo premuroso si trasforma in superficialità compiacente, mentre le regole apparentemente ferree si modellano sull'eccezionalità dei singoli casi, mostrando la loro fragile validità.
Una gigantesca pira il cui orrendo fuoco brucia non solo il sistema scolastico, ma l'ipocrisia dei rapporti, l'educazione familiare e la Slovenia tutta (fulminante la battuta dello studente cinese Chang ai suoi compagni che si stanno azzuffando: «Voi Sloveni: se non vi ammazzate da soli, vi uccidete l'un l'altro»).
Ceneri che tuttavia si rianimano come un'araba fenice, come se niente fosse successo. Non proprio un'elaborazione, quanto il trionfo del proprio ego.
Slovenia, oggi. Un liceo come tanti. Una classe come tante. Una quotidianità come tante. Ma è davvero tutto così ordinario, così regolare? È davvero tutto così tranquillo, sotto la patina di normalità? Basta l’arrivo del nuovo professore, il durissimo Robert, per innescare un violento corto circuito didattico e umano, poco dopo la tragica morte di una studentessa che devasta gravemente gli equilibri. Il dolore dei ragazzi si traduce immediatamente in rabbia e la rabbia, alimentata da interrogativi esistenziali troppo difficili da affrontare, si traduce in caccia: caccia al colpevole, caccia al nemico. Una scorciatoia emotiva che impatta, fatalmente, contro il nuovo professore: il colpevole perfetto, il nemico perfetto.