All'interno di quella confezione impeccabile che è il cinema di Wes Anderson, tra centered shots ossessivi, spazi ricostruiti tramite rigorose geometrie, costumi aderenti come una seconda pelle e ambienti spesso bidimensionali allestiti con cura maniacale, nulla è lasciato al caso. Nulla. Tutto è metodicamente sotto controllo. Come se gli interni di una casa di bambola fossero progettati da un architetto di grido.
Un marchio di fabbrica indubbio, al di là del gradimento: ogni inquadratura è uno frammento significativo, perfettamente riconoscibile e ascrivibile. Ogni singolo aspetto è leggibile, anche il più (apparentemente) insignificante. Tutto è nitido, trasparente, anche lo sfondo, che chiude (molto spesso) le prospettive, incassandole in una scatola che ha l'autonoma grazia di un music box.
In uno sguardo che da sempre gerarchizza lo spazio e gli elementi solo in funzione della distanza dalla macchina da presa, Grand Budapest Hotel presenta un'anomalia. Una sola. Un solo attimo. Fugace. Quasi un urlo improvviso e isterico in un individuo sempre sicuro di sé. Un'inquadratura che esula dal contesto. Da tutto il contesto della filmografia di Anderson, non solo del Grand Budapest Hotel, perlomeno da quando una piena consapevolezza si è impossessata della sua estetica.
Agatha, la fidanzata di Zero, mostrata di profilo in un piano ravvicinato mentre pedala sulla sua bicicletta trasportando le prelibatezze della pasticceria Mendl's in cui lavora e che più volte saranno decisive per le sorti dei protagonisti. Un piano breve e intenso, che evidenzia la voglia a forma di Messico sulla guancia, ma che ha qualcosa di estraneo rispetto ai colori cremosi e all'immersione nella piena evidenza dell'immagine vista fino a quel momento.
Agatha è ritagliata dallo sfondo, che appare indistinto, completamente sfocato. Per un attimo, a vederla correre in quel modo, pare di assistere a una pellicola di impianto realistico sulla resistenza europea al nazismo. Ma già nell'inquadratura successiva, il film si riassesta e torna al suo consueto allestimento.
Un errore? Un piano girato dal regista di seconda unità e montato in mancanza di materiale migliore? Un hápax legómenon? In una precisa concezione estetica, come quella di Anderson, in cui gli obiettivi utilizzati sono sempre di una focale piuttosto corta, stride l'impiego di una focale lunga, solitamente ignorata.
Puro esercizio onanistico sarebbe cercare un significato specifico (Agatha isolata rispetto all'ambiente, coraggiosa nella sua azione solitaria: assolutamente banale), soprattutto perché in Anderson il senso è da ricercarsi nella globalità dell'allestimento e nella sofisticata ripetizione dei caratteri della messa in scena, non nel singolo particolare.
L'impressione è che sia sfuggita, per un breve istante, una componente pulsionale ignota alla rappresentazione morbosamente controllata del regista, una sorta di lapsus causato dalla compressione delle singole energie che Anderson domina per creare la specificità del suo caratteristico universo.
Allo stesso modo di Gustave in treno, che dopo aver riflettuto con signorile distacco sui "barlumi di civiltà ancora presenti in quel barbaro mattatoio una volta conosciuto come umanità" si lascia andare ad un liberatorio oh, fuck it!
Nell'Europa del 1920, Gustave H., un concierge che lavora in un leggendario Hotel di Praga, diventa amico di uno dei suoi collaboratori più giovani, Zero Moustafa, il quale crescerà fino a diventare il suo protetto. La storia coinvolge il furto e il recupero di un dipinto rinascimentale inestimabile e la battaglia per un enorme patrimonio di famiglia.