L’uomo, l’animale e la natura. Il vecchio, la testuggine e il cactus. Sono tre i fulcri attorno ai quali girano Lucky e la sua riflessione sulle conseguenze della fortuna di vivere, o meglio, di sopravvivere.
L’uomo è Lucky, il protagonista. Un novantenne abitudinario, lento, impacciato, che vive da solo e tutti i giorni ripete sempre la stessa routine, incontra gli stessi amici, beve lo stesso drink e pronuncia le stesse battute. Un personaggio ambiguo; ambiguità chiara già dalla sua presentazione che, attraverso un utilizzo costante di dettagli, non lascia spazio a una visione chiara e definita del protagonista, ma a una prima presentazione elusiva. Lucky fuma, beve e cammina sotto il sole, ma non sembra avere nessun problema fisico o di salute. Lucky sostiene che il realismo esista, ma anche che «…ciò che tu vedi, non è lo stesso per me…». Lucky è un uomo stabile che, pur nella sua ambiguità, rimane in equilibrio. Fino a una caduta (metaforica e non) che mette in discussione tutto ciò che lo ha tenuto in piedi fino a quel momento. La paura lo investe di dubbi, la solitudine che tanto lo ha accompagnato comincia a soffocarlo, la morte potrebbe sopraggiungere in qualsiasi momento.
Qualcosa scompare, un vuoto deve essere colmato. Una testuggine domestica di nome Roosevelt scappa, lasciando un enorme senso di solitudine nel suo proprietario, miglior amico di Lucky. L’animale può colmare il vuoto, l’amicizia – anche quella tra uomini – può essere essenziale per l’anima. Lucky è circondato di amici e conoscenti ma a un certo punto sembrano non bastare. Forse acquistare un animale potrebbe colmare quel vuoto: ma neanche le cavallette sembrano riuscirci.
La natura, infine, è il cactus, tra le poche forme di vita vegetali che possono sopravvivere in un ambiente così ostile come il posto in cui vive Lucky, la provincia desertica americana del Southwestern. Ambiente secco, caldo, silenzioso, abbandonato a se stesso. Una “provincia in pensione”, che beve e romanza aneddoti del passato. Nonni ed ex-militari che vivono lentamente e vanno avanti, guardando al passato più che al futuro.
Lucky, la testuggine e il cactus sono tre esseri vecchi e longevi. Tre esseri ricchi di passato ma incerti sul futuro (sui quali gli avvocati vorrebbero mettere le mani). Il futuro è il destino dubbioso, è proprio quel vuoto che va colmato e affrontato. Forse, più che andare incontro a quell’uscita di sicurezza rossa e oscura, bisognerebbe accettare «la verità dell’universo»: tutto scomparirà, il nero abisso inghiottirà ogni cosa. Rinunciare all’animale, lasciarlo andare, accettare il destino e sorridere.
Nel finale, accompagnato da un semplice accompagnamento musicale – un’armonica di serena malinconia, suono della solitudine di provincia – Lucky si trova insieme al cactus e alla tartaruga sotto il grande sole caldo che li ha sempre seguiti. Forse, qualche risposta alle tante domande, il protagonista l’ha trovata. Qualcosa tutti abbiamo capito e Harry Dean Stanton, non più Lucky, ci guarda e ci sorride, prima di scomparire, come la tartaruga, verso il suo destino.
Lucky, come il suo protagonista, è un film semplice, leggero nell’estetica e nella forma. Una storia carica di contenuto e di domande e segnata da uno stile sospeso fra Jarmusch, Lynch (che interpreta un breve, simpatico ruolo) e non da ultimi i Coen, per i quali John Carroll Lynch, regista all’esordio, è stato attore in Fargo (era il mite marito della poliziotta Marge). La macchina da presa si sofferma principalmente sulla performance attoriale di Harry Dean Stanton, il cui corpo viene indagato, sviscerato, sezionato in tutta la sua scheletrica evidenza.
Lucky segue il viaggio spirituale di un ateo novantenne e dei singolari personaggi che abitano nella sua cittadina sperduta nell’entroterra degli Stati Uniti. Sopravvissuto a tutti gli amici di una vita, Lucky si trova davanti al precipizio della sua esistenza, pronto a un ultimo viaggio alla scoperta di se stesso, e forse a un passo da un vero stato di “illuminazione”.