Cate Blanchett, parrucca rossa, schiena rigida e uno sguardo duro, severo, fisso in camera. Legge il manifesto dadaista a una folla in lutto, a una tomba ancora aperta, a un feretro che sta per essere sepolto (che contiene l'Arte con la A maiuscola?). Legge e grida, con dolore, con forza, con passione. A una folla, allo spettatore, a se stessa, a nessuno e a tutti.
È solo una delle tante situazioni che Manifesto, il film di Julian Rosefeld nato da un'installazione artistica, mette in scena. Un momento che racchiude tutta la logica di questo lungometraggio senza trama, inclassificabile – è fiction o documentario, o nessuno dei due? È cinema o un'installazione filmata, o entrambi? – e per certi versi assurdo.
Tutto ruota attorno alla Blanchett, che interpreta, in 94 minuti, tredici personaggi differenti per aspetto, atteggiamento, estrazione sociale e accento. C'è la madre operaia e c'è la coreografa russa, la giornalista e l'inviata, la burattinaia e la maestra, la donna devota e la rock star sotto stupefacenti, e c'è persino la senzatetto che segue il suo cliché di alienata dal mondo reale. Ognuna di queste donne, inserita nel suo contesto di vita, non parla però di sé o di ciò che la circonda. Parla di arte. Non a qualcuno, non in un dialogo, ma sempre e solo in forma di monologo, spesso inascoltato da chi le sta attorno.
Ognuna di queste donne non recita, ma sente e vive un diverso manifesto del '900. Oltre al Dada, quindi, il Surrealismo, l'Arte Concettuale, Fluxus, l'Arte Pop, e perfino il Manifesto Comunista e il Dogma 95 di Lars Von Trier. Una trovata che, già fin qui, è non poco bizzarra. A ciò, tuttavia, si deve aggiungere l'ingegnosa idea della regista di accostare ciascuna “lettura” al personaggio e allo scenario che più le sta agli antipodi, in un gioco di coppie “fatto male”, che punta all'ironia e al contrasto.
Così, le parole di Claes Oldenburg vengono messe in bocca alla pia donna in preghiera; i principi di eliminazione dei confini tra arte e vita, propri di Fluxus, scorrono su una coreografia metodicamente controllata di ballerini-alieni; “l'architettura che brilla” viene esaltata contemplando un cumulo di macerie. Opposti e contraddizioni che non sono solo interni alle diverse scene-storie, ma anche, chiaramente, alla base dell'affiancamento dell'una all'altra, con il risultato che si dice e poi si nega uno stesso principio in pochi istanti.
Ma se il caos e la contraddittorietà fossero alla base stessa dell'arte? Da sempre ci si arrovella nel tentativo di dare una definizione a questo termine, tanto piccolo, quanto complesso. Se la definizione fosse proprio nel suo essere tutte queste cose, tutti questi principi, tutti questi credo e movimenti e manifesti? Se “arte” fosse un coro cacofonico di dodici voci che parlano ognuna per proprio conto (come nel finale del film)? Allora forse anche lo stesso Manifesto sarebbe, anche nel suo non poter essere definito, semplicemente “arte”, sia essa la settima o quella senza numero.
Un omaggio alla tradizione dei manifesti artistici, in cui Cate Blanchett interpreta tredici personaggi diversi: ogni personaggio uno scenario, ogni scenario un movimento letterario o politico celebrato attraverso monologhi e immagini.