La parola “bound”, legato, nel titolo di questo film dice molto della sua natura: l’immagine di un vincolo concreto e insieme astratto introduce l'idea di un destino persistente che grava su tutti i personaggi. Un destino sia crudele e costruito dall'uomo, sia benevolo e tracciato dall'immaterialità divina.
Mudbound si apre e si chiude con visioni dall’alto, inquadrature a plongée, che comprimono, schiacciano e opprimono le figure quasi irriconoscibili nel buio del temporale. Un circolo perfetto che rivela, molto prima di liberare i personaggi del film dalla costrizione indicata dal titolo, una presenza divina, una componente spirituale come forza inarrestabile e, di fatto, ineluttabile, fatale più di qualsiasi altro vincolo umano.
Letteralmente costretti entro i confini di un’umida e fangosa fattoria, i personaggi del film, le due famiglie in opposizione nel Mississippi degli anni Quaranta, popolano loro malgrado un piccolo universo di sofferenza e crudeltà, dove la violenza è vista, sentita e riportata come normale e necessaria («la violenza fa parte della vita di campagna. Sei continuamente aggredito da cose morte», dice Laura, la moglie di Henry).
È proprio con la morte, in effetti, che lo spettatore entra nel film, catapultato in un mare di fango dove viene scavata la tomba del padre di famiglia. Sin dal principio Mudbound insiste sulla claustrofobia di questo spazio confinato, una prigione invisibile, un obbligo e un’oppressione, in una gerarchia resistente che vive dei propri estremi: l’uomo che sfida Dio e la figura “subumana”, marginale, che vive nel nero, nel debole e nella donna.
La presenza divina mette da parte la propria onnipotenza per lasciar giocare l’uomo bianco, il dominatore, trainato non tanto dalla sete di potere, ma dal desiderio di proprietà. È la proprietà, il possesso – sulla fattoria, ma anche sulle persone – che permette a Henry, facendo rivivere le fervide convinzioni del Pappy, di decidere del destino dei propri sottomessi, di ferirli senza distinzione né remora, di soffocare ogni residuo briciolo di volontà individuale.
Ma questo potere illusorio è peccaminoso, e tale si mostra, nella sua più imperfetta incompiutezza, di fronte al fatto reale, creato nella forma della futura, possibile ed eterna beatitudine, dove gli ultimi veramente saranno i primi. Torna a farsi sentire la presenza del divino, come la speranza collettiva dopo i dolori della guerra. È la fede genuina che trova espressione nei piccoli, negli indifesi, negli ultimi.
Ed è a questa, e a questi, che il film di … decide di dar voce: Laura, oppressa dalla logica patriarcale; i Jackson, soffocati dal razzismo; e Jamie, turbato dalla guerra e rifiutato dal padre. Voci che relegano ai margini dell’insignificanza il breve contributo in voice over di Henry, materialistico e superficiale, che ricorda con amarezza la terra del padre mai divenuta sua.
Se la volontà degli uomini-Dio – esemplificata nella crudele punizione inflitta a Ronsel dal Ku Klux Klan – impone questa voce, la loro, mettendo a tacere i deboli in una definitiva (e comoda) sottomissione, a emergere, oltre la violenza e in opposizione a essa, è un coro insieme di sofferenza e speranza, un’unione potenzialmente distruttiva (Jamie e Ronsel, Jamie e Laura), ma di nuovo umana, ancorata ai sentimenti di amore, amicizia e fratellanza. Oltre la violenza necessaria, che colpisce senza distinzioni, legando a distanza due opposti come Jamie e Ronsel, in una rima di prove e vissuti che scandiscono l’intera storia: la chiamata alle armi, l’esperienza dei compagni uccisi al fronte, il ritorno forzato alla fattoria, il disturbo post-traumatico, fino allo scontro con il Ku Klux Klan.
La forza del sentire umano è portatrice di nuova fiducia, nonché generatrice di un’umanità che il film mette in discussione. La mascolinità, nella sua accezione conservatrice, è messa a dura prova dagli stessi indifesi che cerca di reprimere. Un universo femminile, innanzitutto, che poco può, in un sistema patriarcale radicato e apparentemente immutabile, ma molto riesce. Laura, la moglie casalinga, nella menzogna; Florence, la levatrice, portatrice di vita e speranza, nella forza del lavoro; e all’estremo Vera, la vendicatrice, capace di una violenza senza eguali per proteggere le figlie. Dall’altra parte, la rappresentazione dell’uomo, a partire da Henry, desideroso di imporsi come padrone e capo, duro e forte, ma destinato al fallimento su tutti i fronti; Jamie e Ronsel, uomini a pezzi, traumatizzati, costretti a fare affidamento l’uno sull’altro per sentirsi completi e sulle figure femminili per essere sostenuti; Hap, portato ad arrendersi al volere della moglie per il bene della famiglia, confermando una nuova idea di uomo come individuo, un’idea di parità che parte da una condizione di costretta inferiorità (razziale innanzitutto) per riaffermarsi nella consapevolezza di un’uguaglianza universale. E, all’estremo opposto, il razzista Pappy, distruttore e umiliatore, incarnazione del pensiero chiuso e conservatore che sembra oggi tornare in voga in una complessiva regressione di ideali.
Mudbound si inserisce nel discorso attualissimo che riflette su un presente scosso dalla paura del diverso e dal risveglio degli indifesi. Mai come ora la Storia e il passato sono chiamati a riattivare una memoria collettiva allo stesso tempo ammonitrice e utopistica, nella speranza di una progressione, di una evoluzione e, in definitiva, di una reazione.
Nel sud degli Stati Uniti, durante la Seconda Guerra Mondiale, due famiglie si scontrano per il controllo della terra che entrambe lavorano. I McAllan, che da poco trasferitisi in Mississippi da Memphis, non è preparata alle difficoltà della vita di campagna; mentre Hap e Florence Jackson, mezzadri che hanno lavorato la terra per generazioni, lottano per realizzare i propri sogni nonostante le rigide barriere sociali che devono affrontare. La guerra stravolge i piani di entrambe le famiglie.