Notturno, come il lasso di tempo tra il tramonto e l’alba, come una musica che possa essere suonata dopo il calare delle tenebre, come un quadro di Elsheimer col cielo stellato o come il Canto del pastore errante di Leopardi. Gianfranco Rosi sceglie di evocare la notte, ma non per questo si affida all’oscurità, in questo suo nuovo film girato nelle terre del vicino oriente e costatogli tre anni di lavoro nei territori tra i più “caldi” del pianeta. Forse perché di notte non si vedono, pesano di meno, i confini tracciati arbitrariamente tra Siria, Libano, Turchia e Iraq al momento del crollo dell’impero ottomano; confini che non hanno fatto altro che generare separazione, conflitti e violenza, negli ultimi cento anni specialmente ma non solo, sull’altopiano del Kurdistan.
Certamente la notte favorisce il ripensamento, prepara il cambiamento, soprattutto in un momento in cui le tensioni politiche e religiose in quella regione sembrano essere allentate, se non propriamente in pausa.
La questione, come già emergeva nel precedente film di Rosi, Fuocoammare, è se e quanto sia legittimo manipolare la realtà, reinscenarla, per generarne un oggetto cinematografico che ha l’esplicita ambizione di essere oggetto poetico. Soprattutto in uno scenario di violenza e dolore come quello che è al centro di Notturno.
E forse ha davvero senso scomodare il parallelo con il Canto leopardiano: sarà forse stato proprio un pastore curdo, o un suo collega dell’Asia centrale, quello descritto nel resoconto di viaggio che è all’origine dell’immagine del pastore errante, ma la parola poetica aveva – in quel contesto – la libertà di evocarlo in pura vaghezza, eradicarlo dal contesto e innalzarlo a figura assoluta, in dialogo con la luna sulle più profonde questioni esistenziali. Ma quando si tratta di passare dalla parola all’immagine cinematografica, la faccenda diventa per forza più complessa, soprattutto perché la conoscenza della storia antica e recente di quei territori e le ferite ancora aperte, non ci permettono quell’indefinitezza che faceva gioco al poeta ottocentesco: quanto siamo liberi di forzare la realtà raccolta dall’obiettivo cinematografico in un territorio in guerra per impaginare un discorso poetico? Esiste, e se esiste, quale è, a proposito di confini, il limite tra estetica e etica della rappresentazione? Di fronte a un gruppo di donne raccolte in un edificio dove i figli e i mariti sono stati torturati, filmate come le figure in prospettiva nel fondale di un quadro di Carpaccio, la senzazione è proprio che Rosi scelga di varcare quel limite, come conferma anche il raccordo sull’asse di fronte a una di esse che reinscena il pianto rituale nella cella in cui forse il figlio è morto. Una sensazione che si ripete di fronte al gruppo di pazienti che prova uno spettacolo teatrale all’interno di un’ospedale psichiatrico, di fronte al bambino con problemi di balbuzie che racconta gli incubi tradotti in disegni appesi alla parete di una scuola, di fronte al mulinello di detenuti in divisa arancione che rientra dall’ora d’aria ammassandosi in una cella; una sensazione che si moltiplica di fronte all’acqua che si è impossessata dello spazio di un’autostrada crollata filmata in un controluce apocalittico o nel contemplare la linea dell’orizzonte dove bruciano fuochi enfatizzati digitalmente per ottenere un effetto pittorico.
Il fatto è che per questa precisa scelta dell’autore il film procede senza indicazioni geografiche precise, senza appigli topografici. È però un procedere senza appigli che condanna il film a un andamento faticoso, a una piattezza narrativa che le opere precedenti di Rosi non avevano.
Ma poi, ci sarà da domandarsi se non sia antistorico azzerare, come per incantamento, dei confini che nel corso di un secolo hanno amplificato differenze, particolarismi, ostilità; a maggior ragione se abbia senso farlo sulle note e sulle parole di Mawtini, letteralmente “patria mia” (anche se nel senso di Heimat) del poeta palestinese Ibrāhīm Tūqān, a lungo inno della Palestina, e dal 2004 dell’Iraq: viene il dubbio che da quel canto di fierezza e resistenza, benché non sia precisato a quale patria si faccia riferimento, qualcuno rimarrà sempre, per forza, escluso.
Notturno, girato nel corso di tre anni sui confini fra Iraq, Kurdistan, Siria e Libano, racconta la quotidianità che sta dietro la tragedia continua di guerre civili, dittature feroci, invasioni e ingerenze straniere, sino all’apocalisse omicida dell’ISIS. Storie diverse, alle quali la narrazione conferisce un’unità che va al di là delle divisioni geografiche. Tutt’intorno, e dentro le coscienze, segni di violenza e distruzione: ma in primo piano è l’umanità che si ridesta ogni giorno da un “notturno” che pare infinito. Notturno è un film di luce dai materiali oscuri della storia.