Ormai lo sappiamo: ogni trilogia ha la sua epoca e ogni epoca la sua trilogia. Arrivati alla terza, è evidente come Star Wars sia un riflesso del tempo a cui appartiene e come incarni desidéri, sentimenti e speranze del momento storico che attraversa. Eppure quest’ultimo capitolo della saga, ci mostra che quando tutto scorre veloce e i cambiamenti e gli sconvolgimenti si susseguono inarrestabili, anche dentro un solo episodio il tempo della storia possa andare a velocità doppia, facendo succedere così tante cose da far sembrare il film un’intera trilogia.
È denso, densissimo Gli ultimi Jedi, Rian Johnson – regista e sceneggiatore – parte dal punto esatto in cui era finito Il risveglio della Forza e cioè dal momento in cui Rey, trovato Luke sull’isola di Ahch-To, si accinge a riconsegnare la spada laser al vecchio Maestro Jedi. Da questo momento succedono una miriade di cose che non modificano più di tanto l’impianto narrativo (in fondo la storia, sin dal 1977, non è altro che Impero contro Alleanza Ribelle, Primo Ordine contro Repubblica o più semplicemente buoni contro cattivi), ma si addentrano – com’era nella prima trilogia – nelle pieghe della storia e soprattutto nelle vicende, nei rapporti e nelle relazioni fra i personaggi, primi fra tutti, ed è chiaro sin dal titolo, gli ultimi Jedi rimasti nella galassia: Luke e Rey.
L’incontro fra Maestro e apprendista riporta tutto all’origine e mette, ancora una volta, la Forza al centro dell’universo. Non diremo nient’altro sulla trama e non sveleremo alcunché, tuttavia non è possibile non notare come, similmente alle vicende dei primi due episodi (e cioè il IV e il V) anche nel VII e nell’VIII vengano recuperate le situazioni narrative che Lucas aveva posto all’inizio di tutto, ma anche come esse siano espanse all’inverosimile. Se Il risveglio della Forza era una specie di sequel (o remake, fate voi) di Una nuova speranza, questo Gli ultimi Jedi ha molto più a che fare con L’impero colpisce ancora e, proprio come L’impero, ha un’atmosfera decisamente più cupa del capitolo che lo precede.
C’è più azione, molta più azione che in qualsiasi altro episodio (e nemmeno un po’ di politica) e Johnson – che firma forse il più bell’inizio dell’intera saga – è bravissimo a bilanciare l’eredità (ingombrante) che si porta appresso e le nuove idee: al fine di costruire una storia che deve necessariamente scrollarsi di dosso citazionismo e situazioni narrative risapute. Il regista del Maryland è forse meno attento di Abrams a maneggiare la materia incandescente che si trova fra le mani, ma è altrettanto rispettoso e certamente più devoto e appassionato. Cosa, questa, che lo porta a rischiare di più, a porre le basi per qualcosa di nuovo (non a caso la futura quarta trilogia sarà modellata e probabilmente diretta proprio da Johnson), mettendo in discussione un intero canone. Anche qui, come ne Il risveglio della Forza lo scontro è – non a caso – generazionale. Di nuovo padri e figli si fronteggiano cercando di annientarsi a vicenda. Ma la differenza, sostanziale, con i vecchi film è che se prima i figli cercavano il consenso e l’accettazione paterna, ora i ruoli si sono ribaltati. Facendo sì che lo scarto fra il vecchio e il nuovo sia evidente e che tutto quanto sia ammantato di una forte malinconia.
C’è un perenne stato di emergenza ne Gli ultimi Jedi, il pericolo che incalza è costante e (letteralmente) più prossimo, vicino, immediato. Si combatte in trincea e – come già in Rogue One – incombe un generale senso di sacrificio, di consapevolezza e coscienza di un disegno più alto, che prescinde dal singolo, che postula un sentimento proiettato verso la collettività e il bene comune. Uno sguardo umanista profondamente contemporaneo, dove la malinconia non fa rima con nostalgia – e del resto negli Star Wars di Lucas, il bisogno calvinista dell’autoaffermazione e di un eroismo positivista aveva la meglio sul, pur non trascurato, senso collettivo. Ma mette in discussione tutte le certezze del passato – compresa la filosofia sottesa al concetto di Forza così come interpretata dagli Jedi – e per la prima volta riflette su temi come la sconfitta, il dubbio e il fallimento.
I ribelli del 2017 sono un gruppo capace di percepire la caducità della propria missione e comprendere l’ineluttabilità del proprio destino. Un collettivo dove al comando sono le donne e dove la saggezza e la misura del loro operato ha l’afflato della visione globale, utopica, profetica. E dove perfino la tensione (tutta maschile) verso la guerra non ha più le connotazioni vitaliste (molto anni ’70) del vecchio Han Solo, ma una spacconaggine, quella incarnata da Poe Dameron (uno dei personaggi migliori di questa nuova trilogia), forse ugualmente scanzonata ma senza dubbio più dolente.
È davvero un film sul tempo che viviamo questo Episodio VIII. Come la nostra contemporaneità ci tiene in allarme, ci toglie il respiro e avverte che il pericolo si nasconde dietro ogni angolo e può esplodere in qualsiasi momento. Ma è anche un film nel quale i cattivi ci sembrano più umani, quasi comprensibili e dove i buoni appaiono più smarriti di quanto li ricordassimo. E in cui più che mai, c’è bisogno di farsi Forza.
Dopo aver mosso i primi passi in Il Risveglio della Forza, la coraggiosa Rey prende in mano le redini del suo destino nel secondo capitolo della nuova trilogia ambientata trent'anni dopo Il Ritorno dello Jedi.