È Saeed, uno dei due registi di Still Recording, il primo a prendere la parola nel film. Dopo aver illustrato la perfezione nella composizione delle inquadrature di Underworld, big budget movie hollywoodiano, Saeed rende nota la sua regola numero uno del filmmaking: «Trovate il momento giusto per iniziare a filmare, e sappiate perché impugnate la videocamera». E quale contesto migliore, come momento chiave, come inizio delle riprese, se non il 2011, all’origine della guerra civile siriana, tutt’oggi in atto.
E quale apertura migliore per un film che desidera raccontarla al resto del mondo, se non quello scelto dai due giovani registi Saeed Al Batal e Ghiath Ayoub, sullo sfondo nero dei titoli di testa: rumore di spari, esplosioni, caos; stacco su una mano che impugna la videocamera, immagini confuse di ragazzi e uomini che abbracciano armi, attimi di attesa, paura, tensione.
Gli schieramenti sono tra loro lontani, il nemico non è visibile, eppure se ne vede chiaramente l’azione, se ne vive la violenza. I ribelli sparano da lontano, e comunicano da lontano – quando riescono. I colpi di fucile sembrano puntare al vuoto, al circa, all’indefinito. In mezzo stanno grandi distanze, per terra e per aria.
Abissale è la differenza di distanza dalla guerra dei cameramen e dei cecchini; pur entrambi impugnando armi – lo stesso Saeed parla della propria videocamera come “weapon” durante l’intervista alla radio – gli uni sono costretti dentro all’azione, direttamente coinvolti e partecipi, persi nel mezzo del caos; gli altri situati lontani, in alto, nascosti da muri e finestre, protetti dalla strategia, dietro un mirino che, separando, distacca – fisicamente e psicologicamente – il carnefice dalla vittima. Come in un videogame, azzarda il regista.
Il dualismo tematico è proprio questo, videogame contro realtà, illusorio contro documentario. Una contrapposizione che è evidente sin dal principio, nelle distanze che Saeed – e con lui, il suo film – prende dal cinema hollywoodiano, costruito fotogramma per fotogramma, dove «potrei fermare il film in ogni momento, e le stesse regole si applicherebbero ad ogni singola inquadratura».
L’illusione non è solo il distacco da videogame, ma la realtà mascherata nelle bugie innocenti raccontate a una madre in pensiero, la distanza presa per paura paralizzante. Ed è anche l’illusione che sopravvive, a stento, nelle prime riprese di Damasco ancora sotto il controllo del regime. La città che, ad appena cinquanta metri dalla distruzione, appare normale, e la Storia va avanti, dove c’è ancora vita, e trambusto e traffico, dove si può ancora far festa con gli amici per sfuggire alla paura della guerra. Di illusione, tuttavia, si tratta, poiché quale esistenza può definirsi reale, se non è libera?
L’arte è presente anche qui, ma limitata ai confini istituzionali, accademici. Non è l’arte libera che scaturisce dalla speranza dopo la distruzione, né l’arte della musica che risuona in casa ai tasti del pianoforte suonato da Saeed. Non è l’arte dei murales colorati, dei dipinti semplici dei bambini sui muri della scuola. E non è, in fin dei conti, l’arte del documentario, autentica, contrapposta all’estrema finzione dei film americani. C’è bisogno, infatti, di verità, e di conoscenza per capire.
C’è bisogno del dialogo, sia esso via radio, volatile, tra due individui di fazioni opposte o quello eterno delle immagini, di un film come questo, che dal nucleo più interno del particolare vuole proiettarsi al generale, al mondo intero, come testimonianza e come come richiesta di aiuto - o, al minimo, di comprensione. Un’immagine come «ultima linea difensiva contro il tempo», che renda noto, che imprima e che ricordi, che dia infine legittimità a questa lotta, un po’ storica e un po’ universale, per la libertà. Ma è una battaglia persa. Le città sono libere solo dai loro abitanti, e tutto pare impotente di fronte alle armi del nemico, annientatrici, cui “nemmeno l’erba sopravvive”.
Tutto sembra impossibile di fronte alla potenza di una dittatura feroce e immune ai dolori delle persone reali. Persone costrette alla fuga – dalla guerra perenne, dai bombardamenti, dai nemici, da tutto – ma incapaci di sfuggire alla sofferenza, al lutto e alla fame, costrette a cibarsi di pane preparato con il mangime degli animali per la sola sopravvivenza.
Il disordine politico e quello reale e quotidiano che gli individui comuni sono costretti a vivere è riflesso dal caos delle riprese, frettolose e confuse di fronte a ciò che accade, di fronte alla violenza, ad un nemico sempre più difficile da identificare - “ci chiamate terroristi”, dice il ragazzo alla radiolina, «non siamo noi i terroristi» – per placarsi solo nei momenti sacri, di lutto, di contemplazione, di preghiera. Sono quelli dove si ricerca la forma, le mani dei martiri che dominano l’inquadratura. Mani di chi ha costruito quel popolo, quel paese, e con le stesse ha tentato (invano) di salvarlo, in uno sforzo che implacabile sussiste, ma sempre meno mani ad accompagnarlo, sempre meno speranza a sorreggerlo. Non è difatti con il commovente gesto degli artisti e dei bambini di dipingere i muri di consolazione che si chiude il film. Esso, ben consapevole del proprio ruolo e della realtà in cui è calato, al contrario non si chiude, non si dà una fine, analogamente alla Storia che non cessa, nemmeno con la morte di chi ne permette la creazione.
Finché c’è qualcosa da testimoniare, qualcuno da raccontare, la videocamera continua a riprendere, still recording.
Saeed è un giovane cinefilo che cerca di insegnare ai giovani di Ghouta, in Siria, le regole del cinema, ma la realtà che si trovano ad affrontare è troppo dura per seguire alcuna regola. Il suo amico Milad vive dall’altra parte della barricata, a Damasco, sotto il controllo del regime, dove sta terminando gli studi d’arte. Un giorno, Milad decide di lasciare la capitale e raggiungere Said nella Douma assediata. Qui i due mettono in piedi una stazione radio e uno studio di registrazione. Tengono in mano la videocamera per filmare tutto ciò che li circonda, fino a quando un giorno sarà la videocamera a filmare loro...