La vendetta è un piatto che va servito freddo, vuole la vulgata. E il freddo, nel nord della Norvegia dove è ambientato In ordine di sparizione, non manca di certo.
Però, nonostante le apparenze, quello di Hans Petter Moland non è solo il film che declina in chiave black-comedy post-tarantiniana il revenge movie che tanto va per la maggiore.
Certo, di cadaveri a terra Stellan Skarsgård, padre infuriato per l’assassinio del figlio, ne lascia tanti; e altrettanto fanno i suoi rivali, e i rivali dei rivali. Però ecco che in mezzo a cadaveri e piani, azioni e reazioni, momenti vagamente assurdi e villain che parodiano le nevrosi di un Nicolas Cage, Moland cala una serie di dettagli e riferimenti capaci di donare al suo film un retrogusto più complesso.
Tra un colpo di pistola e un dialogo à la Pulp Fiction, Moland fa agitare personaggi delle provenienze più disparate (Skarsgård è svedese, la moglie del suo rivale danese, la banda del terzo incomodo albanese), le cui attitudini e le cui identità mettono in crisi il modello culturale e socio-economico di una nazione che ha costruito un’immagine di sé messa a durissima prova dalla strage di Utøya.
Quasi impossibile non pensare, quando due killer albanesi discutono fra loro di quanto siano comode le carceri norvegesi, ai tanti servizi giornalistici sulla struttura destinata a “ospitare” Anders Breivik; e allora forse l’ecatombe messa in scena da Moland è un’inconscia reazione a quella, ben più tragica, causata dal folle terrorista.
Una risata li seppellirà: un concetto forse cinico, considerata la drammaticità degli avvenimenti del 22 luglio 2011, ma che assume valenza di reazione forte ed emotiva, di un riscatto capace di guardare negli occhi la tragedia indossando le lenti della farsa.
In questo senso, la discesa agli inferi del personaggio di Skarsgård, e la sua difficile riemersione è allora quella di un’intera nazione, che ha lavorato duramente per costruire il suo metaforico attestato di cittadino onorario e che si ritrova a fare i conti con quelle problematiche nascoste tra le pieghe dei fiordi, delle nevi e di un welfare che comunque a casa nostra ci sogniamo.
Corteggiato dalla politica più populista (la stessa cui guardava Breivik), mentre deve fare i conti con i lutti suoi e da lui causati, il tranquillo guidatore di spazzaneve interpretato dallo svedese troverà redenzione e catarsi nell’incontro con la purezza infantile, pur figlia di quelle stesse persone che sta combattendo.
Nel tutti contro tutti del finale, nelle oblique alleanze che ne derivano, e nella tutela del futuro, c’è allora il senso di un film epidermicamente divertente, scoppiettante nel ritmo, ma che cerca di ricompattare dei cocci inconsci che, a ben vedere, non si sono ancora risaldati del tutto. E che nella consapevolezza della contraddizione potranno trovare la loro ricostituzione definitiva.
In una regione isolata della Norvegia, Nils tiene libere le strade guidando un enorme spazzaneve. Cittadino modello, la sua vita è sconvolta dall’omicidio del figlio, finito per errore nel mirino della malavita. Deciso a vendicarsi, l’uomo si rivela un combattente nato, scagliandosi da solo contro un’organizzazione criminale guidata dal "Conte", giovane gangster ferocissimo ma amante dell’arte e vegano convinto. La situazione si complica quando si mette di traverso anche la ruspante mafia serba, in un susseguirsi di omicidi e vendette incrociate sempre più rocambolesco. Grazie alla fortuna dei principianti e a un coraggio fuori dal comune, Nils riuscirà a tenere tutti sotto scacco, fino all’eclatante resa dei conti.