L’inizio è di quelli col botto. Una tenera sequenza di intimità a letto tra Liam Neeson e Viola Davis alternata da un roboante e pirotecnico inseguimento tra un portavalori e alcune auto della polizia che si conclude all’interno di un magazzino con l’esplosione del furgone blindato, in cui rimangono uccisi lo stesso Neeson e gli altri componenti di una banda di scassinatori. Si tratta di un prologo eccezionale, che guarda più a Michael Mann che non a un Peter Berg, e che lascia ben sperare per il prosieguo del film, dimostrando le innegabili doti compositive di Steve McQueen, cineasta proveniente dalla videoarte, qui alla sua prima prova con l’action.
Invece, nonostante qualche altro buon momento, per lo più limitato a situazioni isolate sparse, Widows - Eredità criminale si sviluppa come un heist movie che non arriva mai al dunque, perennemente indeciso su quale strada percorrere e a quale tono affidarsi.
Il vero limite del film sta nell’evidente disequilibrio tra la leggerezza e la libertà narrativa determinate dalle pressoché infinite riformulazioni del genere e la pesantezza, talvolta perfino fuori luogo, delle riflessioni di attualità socio-politica che McQueen e la co-sceneggiatrice Gillian Flynn (Sharp Objects, L’amore bugiardo) hanno voluto inserire. Una dicotomia che si riflette anche nei continui sbalzi d’umore del film, che passa senza soluzione di continuità dal serio al faceto, dall’uso parossistico della violenza (come il personaggio over the top di Daniel Kaluuya) all’improvvisa necessità di sdrammatizzare con l’ausilio di battute sarcastiche e siparietti grotteschi.
Ben venga, in epoca di rivalsa femminile contro la prepotenza e la violenza del maschio, la rivincita di un gruppo di donne che si vedono costrette a proseguire il lavoro sporco iniziato dai loro mariti allorché vengono ricattate dal gangster a cui apparteneva il bottino del colpo fallito. Ma è mai possibile che il messaggio debba arrivare solo creando un solco netto tra personaggi uomini e quelli femminili? I primi sono tutti brutti, sporchi e cattivi, nessuno escluso, e anche quando si presentano in giacca e cravatta, con una professione rispettabile e l’aria da bravi ragazzi, alla fine hanno sempre qualcosa per cui meritano di essere detestati. Le donne, invece, vengono continuamente sfruttate, raggirate e maltrattate, e quando finalmente trovano il modo di riscattarsi, lo fanno agendo e comportandosi nello stesso modo di coloro dai quali vorrebbero prendere le distanze, ovvero in maniera “cazzuta”, solo un po’ più fine e aggraziata.
Rifacimento di una miniserie dei primi anni ’80 (Le vedove, 1983), Widows mette in scena tre donne, ciascuna rappresentante delle grandi minoranze osteggiate dalla politica dei muri di Trump: sono un’afroamericana (Viola Davis), un’ispanica (Michelle Rodriguez) e una polacca (Elizabeth Debicki). Le coppie miste? Alla fine non funzionano. I politici, che appartengano ai salotti altolocati e si tramandino lo scettro del potere da padre in figlio (Robert Duvall e Colin Farrell) piuttosto che dai bassifondi con il sogno della rivalsa (i fratelli Manning, interpretati da Brian Tyree Henry e Kaluuya), tutti mafiosi sono. E c’era proprio bisogno di inserire, per giunta in un flashback del tutto gratuito, riferimenti alle discriminazioni a sfondo razzista da parte dei poliziotti bianchi nei confronti dei neri?
McQueen non è Spike Lee. Lavora bene sulle immagini e riesce bene con storie intimiste e circoscritte. Per il resto si prende troppo sul serio, gli manca, e forse non avrà mai, l’estro colloquiale del cinema popolare. Per questo i generi non gli si confanno. Evidentemente, però, l’esperienza di 12 anni schiavo non gli era bastata.
Ambientato nella Chicago dei nostri giorni, in un periodo di agitazione e tumulti, quattro donne, senza nulla in comune tranne il debito lasciato dalle attività criminali dei mariti, uccisi durante un colpo andato male, decidono di unirsi e prendere in mano le redini dei loro destini.