Marysia è giovane, tanto, con tutta una vita davanti da affrontare a muso duro: “non posso avere questo bambino, devo andare all'Università”. Comincia praticamente così, rifiutando un aborto, allontanando rabbiosamente il poliziotto più grande di lei con cui ha avuto la relazione, accettando il patto che la sorella Marta le propone: partorirà, studierà e, in cambio, dopo lo svezzamento, del figlio se ne occuperà lei, madre sostituta (ma malata e chi vuole capire intuisce subito...).
Una concitata serie di fatti, sbattuti in faccia allo spettatore da riprese ravvicinate e da un montaggio adeguatamente convulso; una scarica di aggressività e adrenalina, la stessa che muove il furore di Marysia e che si trasmette, attraverso gli artifici del cinema, allo spettatore: così parte Subuk, dramma da storia vera, premiato in patria, la Polonia, per la sceneggiatura (cofirmata anche da Szymon Augustyniak) e proposto in concorso al Bergamo Film Meeting.
Poi, le cose cambiano sì, ma non per il verso giusto. La sorella muore, il piccolo Koba frigna troppo, non socializza con i coetanei, è capace di dire solo una parola, peraltro incomprensibile, “Subuk” appunto. Ma Maria scopre anche che il figlio, che pare rinchiuso in un mondo tutto suo, ha delle capacità insolite: ha imparato a leggere da solo a 4 anni e ha una memoria prodigiosa. Finisce con l'affezionarvisi totalmente, anche se questo comporta la rinuncia agli studi, una vita grama ad accettare lavoretti, per non parlare dell'astiosa incomprensione col vicino. E soprattutto, quando già all'asilo arriva impietosa la prima diagnosi (“vostro figlio ha dei disordini mentali”), invece di farsi travolgere dallo sconforto Maria reagisce, e l'anziano vicino, che è diventato suo amico e soccorritore, le porge il suggerimento giusto, dopo che Koba, a causa del suo autismo, è stato rifiutato dalla scuola pubblica: “possibile che sia il solo caso in tutta la città?”.
Il film è questo, la storia della lotta del singolo (che trova pochi seppur fondamentali aiuti), contro l'indifferenza infastidita della comunità e la pigrizia riottosa delle istituzioni. La via all'eguaglianza dei diritti passa oggi ormai per piccole grandi vittorie, sia pure a prezzo di scontri aspri e devastanti, ci suggerisce l'autore Jacek Lusinski, già fattosi notare per il dramma (anche questo clinico, psicologico e sociale) da lui scritto e diretto (Carte bianche, 2015), oltre a vari documentari e spot.
In effetti, un po' la passione per l'immagine bella (da “ideologia” pubblicitaria) viene fuori anche qui, quando sospende il corpo a corpo della macchina da presa con le persone e i fatti, per aprirsi in riprese vistosamente “sentimentali” (lei che cammina su una strada in salita che costeggia un gigantesco muro di mattoni molto marroni o inquadrature-pose di gruppo), ma si tratta di un peccato veniale, dettato dal non volere pesare troppo sull'animo dello spettatore.
In definitiva, Subuk è un dignitosissimo ed encomiabile film sociale che molto deve per la sua riuscita anche alla dedizione dell'attrice protagonista, la coinvolgente Malgorzata Gorol che, pur avendo già 37 anni, grazie al fisico minuto e nervoso può tranquillamente passare per una giovanissima reattiva e determinata, che si affaccia alla vita adulta decisa a combattere colpo su colpo, a costo di prendere a calci i mobili.