Éric Rohmer, che ci ha lasciati novantenne quattordici anni fa, ha continuato a fare film fin quasi alla fine (Astrea et Céladon è del 2007), con l’equilibrio e la profondità di un vecchio saggio ma anche con la freschezza di sguardo e la leggerezza di racconto di un ragazzo entusiasta. I film che ci ha lasciato ci narrano di intrecci amorosi con una levità ben difficile da trovare altrove e sono permeati di uno spirito giovanile accompagnato da un occhio sornione, che sa sempre tenersi rispettosamente quanto ironicamente alla giusta distanza rispetto alle storie narrate. Quando si termina la visione di uno dei suoi film, ci si accorge che Rohmer vuole bene ai suoi personaggi, anche a quelli dal carattere più spinoso, e ci si rende conto di quanto di questa simpatia sia riuscito a trasmetterci attraverso una tecnica di racconto nella quale ogni mossa è perfettamente calibrata, ogni incontro, per quanto in apparenza casuale, accade esattamente come e quando deve accadere, secondo direttrici ben studiate. Arguto “capostazione” delle esistenze altrui, Rohmer smista e disegna meticolosamente i tracciati dei “treni” delle vite dei suoi personaggi. Ogni sua storia funziona come un congegno a orologeria, in cui calcolo e spontaneità convivono in una sintesi più che perfetta (treni, orologi… a guardare agli stereotipi legati alle nazionalità, verrebbe quasi da dire che, fra i “giovani turchi” della sua generazione, sia stato lui, Éric Rohmer il vero elvetico, piuttosto che Jean-Luc Godard).
Incurante di tendenze e di mode cinematografiche, Rohmer è autore di un cinema personalissimo, sempre uguale e sempre diverso. Non ha mai nascosto i suoi “padri nobili”, sia cinematografici che letterari: sullo schermo, Renoir, Murnau, Hawks, Dreyer, Nicholas Ray, Bresson, Preminger, Mankiewicz, Cukor, Rossellini, Hitchcock (sul quale, assieme al sodale Claude Chabrol, scrisse nel 1957 il primo vero saggio critico mai pubblicato, aprendo di fatto la strada alla corretta interpretazione dell'opera del maestro inglese); sulla pagina, sopra tutti, Victor Hugo e Honoré de Balzac. Come da lui stesso dichiarato, «nei romanzi di Balzac ci sono contenuti di conversazioni, nei romanzi del XX secolo ci sono conversazioni, non contenuti. Il senso sta fra le righe: i personaggi dicono delle frasi piatte. In questi romanzi del XX secolo le cose succedono, si devono subire, non c'è complotto. Il complotto è qualcosa di totalmente fuori moda. Non c'è neppure psicologia. Io sono sempre stato per la psicologia. […] Mi piace mostrare sullo schermo degli esseri pensanti, dotati di una “psiche”. Continuo a credere che un cinema fondato sull'intreccio e su personaggi ben caratterizzati sia sempre moderno».
È questo “gusto per la vera conservazione” che Rohmer è andato sempre seguendo, e che ha sempre amato mettere in scena: personaggi che parlano, impegnati in un lungo dialogo intorno a un tavolo o andando a zonzo senza meta per parchi e boulevard. Con altri autori, andare al cinema a vedere gente che parla può risultare estremamente tedioso. Con Rohmer, mai: i suoi film vanno dritti al cuore, in un perfetto equilibrio fra ragione e sentimento. Ciò che dicono i suoi personaggi – parole mai superflue, specchio invece di psicologie studiate con grande attenzione – fanno emergere i tratti più differenti di carattere, da un'innata propensione alla civetteria (Le notti della luna piena, 1984; Pauline alla spiaggia, 1983) a solitudini profonde (la formidabile Delphine di Il raggio verde, 1986, rompiscatole e adorabile al tempo stesso). Parole, insomma, che, anche nel loro influsso incessante, non sono mai vane e che costituiscono sempre la base di ogni racconto.
Dai suoi “padri cinematografici”, Rohmer ha imparato le tecniche dell'intreccio (esposizione, progressione, intrigo, drammatizzazione e soluzione) e l'attenzione per gli ambienti, per le atmosfere (rese sempre con pochissimi tocchi: a volte, per costruire un'efficace scenografia rohmeriana, bastano letteralmente un tavolo e due sedie). Incontri, scoperte e amori accadono sempre al momento giusto, sconvolgendo profondamente la vita dei protagonisti. Se, apparentemente, il caso sembra decidere i destini dei personaggi, questi non si lasciano mai condizionare dalle circostanze, ma seguono instancabili i loro percorsi finché non trovano ciò che vogliono (soprattutto i personaggi femminili, ai quali va sempre preferibilmente la stima di Rohmer).
Tali schemi ricorrono costantemente, sia pure con qualche variante, in tutti i film di Rohmer, dal primo Il segno del Leone (1959) ai successivi La collezionista (1967), La mia notte con Maud (1969), Il ginocchio di Claire (1970), L'amore il pomeriggio (1972), fino ai filoni tematici costituiti dalle “Commedie e proverbi” (La moglie dell'aviatore, 1981; Il bel matrimonio, 1982); Pauline alla spiaggia, 1982; Le notti della luna piena, 1984; Il raggio verde, 1986; L'amico della mia amica, 1987) e dai “Racconti delle quattro stagioni” (Racconto di primavera, 1990; Racconto d'inverno, 1992; Un ragazzo, tre ragazze, 1996; Racconto d'autunno, 1998). Senza dimenticare le trasposizioni letterarie e film di ambiente storico (La Marchesa von…, 1976, da Heinrich von Kleist; Perceval le Gallois, 1978, da Chrétien de Troyes; La nobildonna e il duca, 2001, sullo sfondo della Rivoluzione francese; Triple agent, 2004, da una storia vera di spionaggio degli anni 30, raccontata con sfumature molto lecarreiane). Sempre con lo stesso rigore, la stessa attenzione alle psicologie, agli intrecci e agli ambienti, e la stessa simpatia per i personaggi.