Il lavorio della macchina, l'alienazione del lavoratore, la necessità del lavoro, l'identità di una classe sociale: il ventesimo secolo è alle spalle da tempo, ma molti dei suoi punti fermi e dei suoi punti critici, immutati nella loro essenza, sono ancora lì. Il lavoro è ancora metà della vita di chi ha la fortuna di averlo, e forse occupa tutta quanta quella di chi non ce l'ha.
Que ta joie demeure del canadese Denis Côté, presentato al Forum Berlinale e nuovo documentario di un autore sempre inafferrabile, e per questo interessante, è un film sul lavoro. Nel 2014. Un film sul lavoro come pratica concreta ed esistenziale, un insieme di riprese in luoghi assordanti - officine meccaniche, torni, falegnamerie, ditte di imballaggio, lavanderie - in cui Côté inquadra lo spazio della fabbrica come una scena ideale, come il luogo di un conflitto e di una relazione.
Uno spazio cinematografico, insomma, in cui le macchine sono sempre in azione, sbuffano, colpiscono, segano, frantumano, e gli uomini e le donne che le manovrano sono legate ad esse come in un rapporto reciproco e al tempo stesso forzato, una prigione richiesta e necessaria.
Que ta joie demeure è in fondo la storia di tante storie d'amore, inizia con una donna che fa una dichiarazione a qualcuno fuori campo, e quel qualcuno potrebbe anche essere il suo uomo, e non la sua macchina imballatrice.
Côté è ironico, surreale, anche teso, ma ha il pregio di non essere mai esplicitamente politico o sociologico. La sua visione della fabbrica nasce da uno sguardo grafico e plastico, puramente cinematografico. Solo così, oggi, è ancora possibile parlare di cose che ancora ci sono, che ancora contano parecchio, ma che in qualche modo non fanno più parte della contemporaneità.
Come tutte le storia d'amore, Que ta joie demeure è un melodramma: il melodramma di un amore impedito, più forte della sua presunta morte.