Una figlia adolescente che si fa dei tagli alle braccia e all’addome; i genitori che le dicono di mangiare regolarmente; lei che la mattina prima di andare a scuola svuota mezza bottiglia di vino bianco in una bottiglietta di plastica; le compagne di scuola che vomitano, che parlano di attacchi di panico; una di loro che rimane incinta; ma anche un padre che si mette a mangiare dalla spazzatura i resti di un panino, non si capisce se per fame o compulsione.
È la famiglia protagonista di Colo, passato ieri in concorso alla Berlinale, che Teresa Villaverde disegna con i tratti dei sintomi del corpo, quelli che gli psicoanalisti oggi hanno iniziato a chiamare i “nuovi sintomi” del contemporaneo, proprio perché sono basati sull’“essere atto” e non riescono più a farsi parola, come invece avveniva una volta. E infatti è la parola che manca in questo splendido film avvolto in un silenzio surreale, che inizia con una madre che una sera, senza motivo, decide di non tornare a casa e dopo aver cambiato idea scopre a sua volta che è il marito ad aver fatto perdere le tracce.
La casa dove si svolge buona parte del film è un luogo di solitudini. Il momento della cena, che al cinema classicamente allegorizza l’unità di senso familiare (sia nella forma dell’idillio sia in quella del conflitto), in Colo è sempre mancato o prematuramente interrotto: perché uno dei due genitori è fuori di casa, perché la figlia mangia autonomamente nella propria stanza, perché accade qualcosa che interrompe la cena... La dialettica degli sguardi non può così mai compiersi fino in fondo: e anche quando uno dei genitori entra per caso nella camera della figlia, è lei che sistematicamente li invita a uscire.
Il tutto si svolge in una Lisbona impoverita dalla crisi, con la storia di un padre umiliato dalla disoccupazione, una madre costretta a fare due lavori, una figlia adolescente che passa il tempo con un’amica incinta, con il fidanzato o un uccellino che tiene in gabbia che tenta di navigare tra le maglie di un improvviso disfacimento relazionale ancor prima che economico. Ma se in una famiglia in crisi le parole non sembrano più in grado di fare legame, è il ripiegamento su se stessi a costituire la reazione più immediata, non solo nella forma del sintomo (come il cutting) ma anche nella costante ricerca da parte di tutti di un momento di piacere del corpo. Ecco, allora, che vediamo il padre farsi un bagno nudo nel mare, buttarsi nella vasca con un secchio in testa, divorare un pomodoro in un momento di depressione; e la stessa cosa fa la figlia, che con l’amica incinta si mette a camminare nel fango di un ruscello, scappa di casa, salta la scuola, va ad ascoltare il fidanzato e la sua band punk/new wave e lo abbraccia mentre suona la chitarra. Quando manca la parola, la risposta la si cerca attraverso il godimento del corpo, attraverso la ricerca di una sensazione non più mediata dal linguaggio ma direttamente iscritta sulla propria pelle.
Tuttavia, Teresa Villaverde pare oscillare tra una lettura metafisica – quella per cui l’infelicità è un enigma soggettivo difficile da ridurre a una causa – e una più stretta sull’attualità, che imputa la condizione di solitudine degli individui alla distruzione dei legami sociali provocata dalla crisi economica. Alla famiglia viene tagliata la luce di casa perché non può pagare le bollette; al padre capita di minacciare un vecchio compagno di scuola diventato manager perché lo considera responsabile della sua disoccupazione.
A fronte di questa impasse la soluzione del film sarà quella di creare una sorta di permutazione dei ruoli familiari: la madre fugge via, come se fosse un adolescente; il padre riscopre un ruolo “di cura” e ricoprirà un ruolo “materno” per una figlia adottiva; mentre la figlia incontra per la prima volta l’esperienza della morte e diventa quindi un vero soggetto adulto, anche se solitario. Come già successo con l'ultima apparizione nel film della madre, quando la figlia trova finalmente un luogo dove fermarsi, una delle tre case in cui i tre personaggi vivranno separati, la macchina da presa si muove e si avvicina per guardarla e poi si allontana ancora, con quello che è pressoché l’unico movimento di macchina del film.
Forse perché nonostante il tentativo di guardarlo, l’enigma della condizione soggettiva è destinato comunque nella forma dell’immagine a rimanere senza risposta.