Giovedì 16 febbraio il primo film in concorso Bamui Haebyun-Heoseo Honja (On the beach at night alone) di Hong Sangsoo ci introduce in un periodo del festival moralmente impegnativo.
Che si tratti di attrici coreane, giovani e belle, in crisi per essersi innamorate del proprio regista-mentore e perciò in fuga da loro stesse nel posto più differente, che riescono a immaginare (guarda caso proprio Berlino), che siano luogotenenti della corona portoghese alla ricerca di giacimenti auriferi nel Brasile del diciottesimo secolo e si trovino quasi per caso a capeggiare una rivolta, o ancora, che si dannino l'anima (e il corpo) per il denaro, frutto di traffici illeciti, contenuto in una borsa (vero MacGuffin alla Hitchcock, sempre presente, mai davvero spiegato) come nel scintillante Have a nice day di Liu Jian, animazione cinese, ciò che ne sortisce è sempre un'irrimediabile e comune sconfitta. Tutti, ma proprio tutti, perdono.
Abbiamo muri troppo alti intorno. Pareti di vetro che non potremo mai scalare
Siamo loser. Abbiamo perso ancora prima di cominciare la lotta. Siamo degli sconfitti ontologici insomma. E naturalmente lo spazio intorno a noi non può che ribadire questa débâcle chiudendosi sulle nostre vite come saracinesca impietosa.
Anche se forse un passaggio c'è. Al di là dello schermo, un ponte resiste. Quel che conta è saper leggere i segni, come ideogrammi o graffiti, riflessi in una vetrina o in silhouette davanti al Berlinale Palast.
Quel che conta è continuare a sorridere come il regista Alex de la Iglesia qui per il suo film El Bar, horror atipico, ma molto up-to-date con tanto di modella, bella ma sfortunata, e hipster, barbuto ma sensibile, nella galleria dei “sacrificabili”.
L'essere umano è sempre impotente, debole, confuso. Ma soprattutto è solo. Solo nel film kirghiso Centaur di Aktan Arym Kubat, fiaba su di un ladro di cavalli che li ruba per liberarli, ma fuor di metafora su di un paese, il suo, che, da repubblica ex-sovietica, cerca disperatamente di tornare ad un'età dell'oro, che forse non c'è mai stata. Sola come la starletta che esce dallo studio televisivo e il cui sguardo ci precipita in un mare di domande.
Solo come il giovane critico alla prima proiezione del mattino,
o la maschera, fuori dal Palazzo, che pare miracolosamente essere scampata all'ultima zampata. Solo come il critico che cerca disperatamente in quest'edizione della Berlinale la merce più preziosa per il suo PC, una presa elettrica disponibile.
Solo come lo sguardo concentrato nella camera del tecnico fotografico che ci salva la vita, protetto dal suo stand brandizzato dentro l'Hyatt.
Chi ci salverà allora se non il pattern? Quello schema ricorrente che ci fa tremare davanti ad un'infilata di quadrati, dall'ultimo piano dello schermo più prestigioso,
O sbirciando da una finestra sul retro, dove, nella morbida luce della sera, arte contemporanea ed architettura di ricerca si incontrano, dandosi la mano.
Solo persino come Wolverine, della mecca del grande cinema di consumo, qui in anteprima mondiale con Logan di James Mangold. Ormai quasi anziano, non più così immortale, non più così invincibile, abbandonato, uno dopo l'altro, da tutti i suoi amici, ma soprattutto senza più quella voglia di vivere, di lottare, di vincere... quella rabbia insomma che lo contraddistingueva.
Ma proprio per questo più umano, più vero, sensibile e forte dentro. In grado persino, non me ne vergogno, di farci piangere calde lacrime nell'epilogo.
E infatti è emozionato il giornalista che gli pone la domanda in conferenza stampa: “Che cosa la spinge, Mr. Mangold, a girare film come questo, che non sono solo di genere ma lo trascendono?” “Proprio la voglia di risvegliare il mio pubblico. Al di là degli studi per compiacerlo. Seguire l'esempio di Billy Wilder, di Stanley Kubrick, che non si sono fermati ad un genere, ma, nella voglia di raccontare una storia, li hanno superati d'istinto”.
Pieno di steccati, reti, cancelli, costellato di strutture industriali in disuso di fughe in avanti, di vittime innocenti e scene da post attentato terroristico, Logan non sarà forse un film per bambini, ma si rivela un potente ritratto degli USA di domani, e più probabilmente anche di oggi.
“Riflettere sui meccanismi di potere, sul gioco che le multinazionali fanno sulla nostra pelle non è, non sarà mai negativo, neppure in un block buster movie” rincara la dose un bravissimo Sir Patrick Steward, assolutamente a suo agio dai palcoscenici shakespeariani alle platee di X-Men. Arrivando commosso a chiedere scusa per la recente Brexit che ha coinvolto il suo paese: “...sapete c'è un sacco di gente là, almeno la metà degli inglesi ,che pensa che sia una tragedia”. E i fotografi ghiotti lo divorano coi flash.