Martedì 14 febbraio. Diffidare dalle persone che dicono: “Questa è la verità”. Per fortuna Aki Kaurismaeki non è uno di loro. In Toivon Tuolla Puonnen (titolo internazionale The Other Side Of The Hope) ci costringe a pensare a Il principio speranza di Ernst Bloch, un libro scritto nel ’38, pubblicato nel ’59, ma che fa i conti, oggi, con la contraddizione che ancora stiamo vivendo: lo iato tra la fede nelle possibilità senza limiti della Storia e il disincanto inevitabile per l’imprevedibilità di quanto ci attende, il nostro futuro anche immediato. La "Fine della Storia" insomma.
L’essere è potente solo se aperto al cambiamento. Se supera il nichilismo e affronta il “principio di realtà”. Se parte (attenzione parte soltanto) dall’ontologia del “non ancora”, per guidarci verso l’azione, non soltanto possibile ma necessaria. Il superamento dell’angoscia che ti schiaccia, il rifiuto della passiva accettazione dello status quo.
(E infatti tutti nel suo film fanno qualcosa. Che sia partire, che sia aprire un ristorante, che sia aiutare semplicemente il prossimo. Perché è giusto così. Perché siamo esseri umani. Persone. E non è nemmeno il caso di ribadire quanto sia più importante una persona di una cosa, no?).
E, attenzione, pare ammonirci il regista, questo vale per tutti. Per chi, in Siria, lascia le ceneri della propria casa e della propria famiglia sotto le rovine di una guerra, come per chi cerca di cavarsela, nonostante una crisi, esistenziale ed economica, nel moderno, sicuro, “pacificato” occidente.
Certo non tutti hanno davvero “visto” il film (come in quest’immagine di un’immagine di un’immagine!) come la giornalista che pone a Kaurismaki la domanda sull'islamizzazione dell’occidente. Domanda che lo fa ridere, e gli fa chiedere a quella stessa giornalista: ”Are you shure that islamization, like you say, isn’t the name of an old football club of the eighties?”
Ed è commovente alla conferenza stampa anche il contributo del giovane bravissimo interprete del film, Sherwan Haji, attore oltre che regista e scrittore, che viene davvero da Damasco, dove ha vissuto e studiato e, parlando del suo rapporto con il regista, dice: “In Finlandia ho trovato un amico. Non credo che conti il tuo passato per decidere se sei oppure no un bravo attore. Quello che conta è saper recitare”. Gli fa da contrappunto Kaurismaki: “You know... the camera can be a friend or an enemy. A friend if you can act, an enemy if you can’t. I only ask to my actors not to be like windmills when they act in my films”.
Beuys di Andres Vejel, l’altro film in concorso di oggi, un documentario appassionato sul notissimo artista e co-fondatore del movimento dei Gruenen qui in Germania, con il suo bel biancoenero, mi costringe a notare ancora meglio la bellezza della struttura, nel mondo che mi circonda.
Come tralasciare il gioco delle luci che ti rapisce tutte le volte che entri al Cinemaxx e rivolgi lo sguardo verso l’alto?
In fondo non è che un altro dei "momenti" di questo Festival: un Berlinale Moment.
Come quando poco fa, al Grand Hyatt Hotel, mi passa vicino proprio Aki Kaurismaki. L’attimo è da cogliere. E poco importa la luce, l’inquadratura, il punto di vista. Il mosso controllato (?!) rende bene l’autenticità dell’istante.
Un istante unico. Che ci scuote dal nostro torpore, costringendoci infine ad alzare la testa.