The Party non è un brutto film, non è sbagliato, non è scritto male, ha una regia misurata e un ritmo impeccabile. Inoltre non annoia, dura poco, fa ridere e ha un cast di attori eccellenti e ben diretti. E allora cos’è che non va? Perché qualcosa che non funziona sembra esserci, qualcosa che ce lo fa dimenticare in fretta, quasi subito. E probabilmente, oltre alla ovvia e più banale delle considerazioni – e cioè che non è affatto un’opera memorabile – il vero motivo è che è un film vecchio.
The Party racconta di Janet, un’esponente di spicco del partito Laburista inglese che insieme al marito Bill, docente universitario e scrittore, organizza una piccola celebrazione per festeggiare la sua fresca nomina a ministro della Salute nel nuovo governo ombra. Al rinfresco, organizzato nell’abitazione londinese della coppia, partecipano collaboratori e amici di una vita: l’assistente Tom, le vecchie amiche April e Martha, una con il nuovo fidanzato tedesco Gottfried e l’altra con la compagna Jinn incinta di tre gemelli. Quello che dovrebbe essere una conviviale e placida festicciola fra amici viene però rapidamente scossa da rivelazioni scioccanti che danno origine a furiosi litigi. Segreti, inganni, tradimenti che rischiano di trasformare il party in una vera e propria tragedia.
Scritto e modulato come una black comedy ma architettato come un dramma da camera, il film è una pochade con intenti evidentemente satirici dove viene riciclato il vecchio e abusato copione della festa che si trasforma lentamente in un gioco al massacro. E se come commedia funziona benissimo calibrando umorismo e sarcasmo, descrivendo alla perfezione la maschera di ognuno dei personaggi (formidabile pur nella sua dimensione macchiettistica, la coppia Patricia Clarkson, amica cinica e disillusa della protagonista, e Bruno Ganz, fricchettone agée che parla solo per frasi fatte e banali considerazioni sul senso della vita) è però incapace di ergersi, come vorrebbe, a satira di costume su larga scala.
L’intento è quello di ironizzare, con una certa dose di autoreferenzialità, sulla sinistra borghese da salotto, quella degli intellettuali radical-chic che (non solo) nel Regno Unito – come è stato indubitabilmente sancito dalla Brexit – sta perdendo consensi e si sta allontanando in maniera sempre più netta dalla middle-class. Ma lo fa ergendo a simboli dei cliché talmente convenzionali, obsoleti e abusati (la coppia gay che aspetta tre bambini, l’intellettuale ateo e razionalista che scopre il lato spirituale in punto di morte o il manager rampante e liberal che dà di matto quando viene a sapere delle corna della moglie) da far sembrare forzature anche i normali stereotipi da commedia.
È chiaro che il party del titolo si riferisce non tanto (o non solo) alla festa in sé ma soprattutto al Labour Party di cui ognuno dei protagonisti rappresenta un diverso atteggiamento. A cominciare proprio da Janet, convinta sin dall’inizio di essere lì per assolvere una funzione, per fornire un servizio – «I’ve been working day and night for the Party, our Party!» risponde ad April che le rimprovera di non essere la persona adatta per il ruolo che ricopre – ma che si scopre invece mossa da quelle stesse logiche egocentriche e personaliste che applica alla propria vita privata. Insomma le sorti della festa e quelle del partito, dove la prima è la grossolana metafora del secondo, dovrebbero coincidere e portare alle medesime, esiziali conseguenze. E vista in quest’ottica la parabola dei laburisti – che non a caso sono relegati al ruolo dello shadow cabinet – andrebbe intesa come quella di una famiglia in disfacimento a cui tocca prendere coscienza della propria caduta nel momento in cui si riunisce per celebrare una festa. Una prerogativa della sinistra non così difficile da comprendere, in reltà. E qui da noi talmente risaputa e sperimentata da risultare grottesca più che comica, tragica più che farsesca.