C’è una scena, in Eva di Benoît Jacquot, dove si dice - riguardo alla scrittura di un dramma teatrale - che esistono tre diversi “gradi” di scrittura: quello letterale e denotativo, quello metaforico, e poi il ritorno a quello letterale ma in una forma più semplice eppure densa e stratificata. In questa succinta definizione dell’hegeliana negazione della negazione potremmo ritrovare il nuovo approdo del cinema di Jacquot che continua il percorso iniziato con i due precedenti thriller filosofico-psicoanalitici 3 coeurs e À jamais che viravano rispetto ai due meno ispirati e più illustrativi Les adieux à la reine e Journal d’une femme de chambre (per gestazione precedente a 3 coeurs). Come se il regista avesse elaborato una modalità signolare di approccio al genere attraverso la quale, nonostante l'estrema semplicità e la patina quasi televisiva, riesce ad abbandonare quell’impressione di autorialità e pseudo-profondità che talvolta aveva appesantito alcuni suoi film (pochi in verità).
Per inquadrare Eva bisogna innanzitutto evitare ogni riferimento al film di Joseph Losey – di cui non è in alcun modo un remake – così come del romanzo di James Hadley Chase da cui è tratta la sceneggiatura dello stesso Jacquot e di Gilles Taurand (storico sceneggiatore di André Téchiné ma anche di Robert Guédiguian). Il film infatti prima ancora di avere al centro il rapporto patologico tra un uomo e una prostituta, parla di quella che Freud definirebbe una scena primaria, la scena traumatica che dà una minima consistenza al soggetto e che diventa il punto di fissazione di tutte le sue rappresentazioni inconsce. Lo vediamo proprio all’inizio del film con un quadro diviso in due: a fuoco e in secondo piano seduto su una poltrona un vecchio scrittore franco-inglese, ormai infermo e che necessita di cure costanti; in primo piano e fuori fuoco Bertrand che gli fa da badante. Bertrand è fuori fuoco perché soggettivamente non esiste ancora, non ha alcuna consistenza: la sua verità la vedremo prendere corpo di lì a poco. Lo scrittore gli dice di prendere delle cose nell’altra stanza, lui mentre passa per la casa ruba l’argenteria e poi accompagna un po’ controvoglia l’anziano in bagno per lavarlo. A quel punto gli viene proposto di spogliarsi e di avere un rapporto sessuale in cambio di una grossa quantità di denaro: Bertrand accetta ma, proprio mentre si sta per spogliare, il vecchio ha un attacco di cuore e muore scivolando nell’acqua con gli occhi sbarrati e senza vita. Bertrand viene così bloccato da questi occhi nel momento in cui stava per diventare l’oggetto di un godimento sessuale: è per così dire fissato nell’essere l’oggetto di qualcun altro. E infatti questo evento fisserà il suo destino. Invece di chiamare i soccorsi decide di lasciare la casa e di rubare l’ultimo manoscritto, ancora inedito, del vecchio scrittore che diventerà la sua prima opera teatrale.
Dopo questo breve prologo il film si sposta di qualche anno in avanti: Bertrand è ormai diventato un famoso drammaturgo di successo che dopo la sua prima opera fatica a scriverne un’altra. È fidanzato con una donna bellissima, è diventato benestante e vive nell’agio della celebrità. Tuttavia la sua intera esistenza è legata a quell’atto, a quel momento in cui un uomo l’ha fissato morendo mentre lo desiderava dentro una vasca da bagno. La psicoanalisi sa che il problema dei traumi non è il fatto che siano seppelliti sotto la coscienza ma che tendano a ripetersi in maniera inaspettata. Ed è quello che succede a Bertrand quando va a passare un weekend in uno chalet di proprietà della fidanzata in montagna dove trova due estranei che hanno fatto irruzione nella proprietà e che stanno facendo festa: allontana l’uomo con la forza, ma con la donna non riesce, perché la trova nella vasca da bagno, proprio in quella posizione. Appena la donna esce dalla vasca lui non prova a cacciarla come sarebbe stato logico, ma tenta di avere un rapporto con lei; la donna si rifiuta e lo colpisce con un posacenere in testa. Bertrand ha avuto un’esatta riproposizione della sua scena traumatica primaria, per cui è stato ridotto a oggetto, questa volta da parte di una donna: Eva.
Il film dopo venti minuti è praticamente già svolto e Jacquot, che è un attentissimo frequentatore della psicoanalisi, non fa altro che seguire le fissazioni inconsce di Bertrand fino alle estreme conseguenze. Non hanno più importanza la carriera, la futura moglie con la quale svogliatamente organizza un matrimonio o i mille dettagli della sua vita destinata ad andare a rotoli. Ciò che conta è solo la sua verità soggettiva, custodita in quel momento dove è stato ridotto a essere un oggetto del godimento dell’altro. La sua vita doventa allora in continuo tentativo di ritrovare quella posizione proprio tramite Eva, fino alle estreme conseguenze.
Eva non è solo un grande film sulle sottili e imperscrutabili logiche che guidano le fissazioni di una scena primaria ma anche sul percorso di genesi di una posizione masochistica. Hanno poco di significativo in questo senso i dettagli sulla gelosia della moglie, o sul furto d’identità che funzionerebbe da verità inconfessabile del protagonista: come sempre l’interesse di Jacquot sta nella forma delle relazioni tra i personaggi e nelle posizioni strutturali che occupano (con Eva, che va a occupare la verità della scena primaria) non nel contenuto manifesto di quello che dicono. È forse proprio questa doppia natura – latente e manifesta – dei film di Jacquot che sistematicamente produce i fraintendimenti a cui questo sottovalutatissimo regista continua ad andare incontro (il film è stato fischiato durante la proiezione stampa). Ma l'importante è che il suo cinema continui ad andare in questa direzione.