Nel documentario di Alain Fleischer del 2007 Morceaux de conversations, Godard fa una riflessione fondamentale per capire il suo percorso teorico degli ultimi anni: l’equazione fondamentale dell’invenzione cinematografica non è immagine fotografica + tempo, ma microscopio + telescopio.
Che cosa vuol dire? Che il cinema non è un modo per fermare il tempo e per far sì che quello che abbiamo qui di fronte ai nostri occhi non scompaia e rimanga sempre a nostra disposizione. Il cinema invece è una macchina che serve per vedere quello che i nostri occhi non sono in grado di vedere, così come il telescopio e il microscopio ci rendono visibile l’infinitamente piccolo e l’infinitamente grande. Parafrasando la frase di Monet che ci guida in Adieu au langage: “non si [fa cinema] né di quel che si vede, né di quel che non si vede. Si [fa cinema] del fatto che non si vede”. Cioè, si fa cinema a partire dal luogo dove i nostri occhi non possono arrivare.
La macchina da presa sta infatti là dove i nostri occhi non vedono: perché non bisogna tutelare la vita dei nostri occhi (cioè la realtà), ma si deve semmai farli morire perché si impari a vedere attraverso gli occhi meccanici di una macchina. Perché il cinema è questo: immaginare senza la realtà. Si deve andare contro alla vita della nostra visione naturale. “Sono qui per dire no e per morire” dice Godard. “La realtà è solo il rifugio per chi non ha immaginazione” si dice all’inizio del film. È la macchina che ci fa andare contro la realtà.
Godard, lo sappiamo, è abituato ai gesti di rottura. Il suo ingresso nel mondo del cinema coincide con uno degli atti di rottura per eccellenza nella storia del linguaggio cinematografico. E il suo cinema si è sempre basato sull’idea che l’immagine non deve fare uno, non deve congiungersi allo spettatore e gettarsi nella sua braccia, deve dividere, deve spezzare, deve frustrare le false unità. Deve operare un taglio sulla realtà, non rappresentarcela così com’è. E nel 2014 siamo ancora fedeli a questo assioma: il visibile è divisione.
Lo si vede bene in questo sorprendentemente godibile film di soli 70 minuti – fischiatissimo e applauditissimo allo stesso tempo alla sua anteprima al théâtre Lumière a Cannes – con un uso del 3D che non serve come spesso accade oggi a potenziare la sensazione di identificazione all’immagine, ma come se fosse una seconda macchina da presa che si mette contro e di traverso alla prima. Lo schermo non è un’opera d’arte da contemplare, ma un campo di battaglia. Le immagini dentro al quadro sono una contro l’altra (come avviene genialmente in paio di punti del film dove il 3D mettere letteralmente due immagini una sopra l’altra).
Adieu au langage è un film che ci parla del rapporto tra immagine e linguaggio e ci rimanda quest’idea tipicamente godardiana della visione come divisa e antagonista, che è l’unica secondo Godard che appartiene specificatamente alle potenzialità del cinema. Il cinema però se ne è dimenticato preferendo sottomettersi alle richieste pacificanti della narrazione e diventando una pratica di illustrazione di romanzi.
È l’accusa che viene mossa al cinema nelle Histoire(s) e che ritorna ancora qui: l’immagine è morta quando è diventata tutt’uno con la parola e ha rinnegato la sua libertà. Perché la liberta – si dice in Adieu au langage – è quella di essere separati ed estranei: “solo gli spiriti liberi sono estranei l’uno all’altro”.
Il problema è allora quello di riconoscere questa separazione e fare come Frankenstein di Mary Shelley, che diventa un oggetto senza spessore e che opera una divisione dell’umano da se stesso. Vedere è una conseguenza della divaricazione di parola e immagine. La parola non serve più a dirci cosa c’è sull’immagine, come fa il cinema illustrativo che vuol dirci dove andare a guardare. Anzi in questo film le parole, come accade spesso in Godard, confondono la visione e si sovrappongono l’una sull’altra – il 2D sotto al 3D – perché parole e immagini non si uniscano e diventino un segno, che invece è proprio quello che indica dove andare a guardare (e quindi acceca il visibile).
Il film è diviso in due capitoli – che ritornano due volte – la natura e la metafora. Godard vuole dirci che non c’è la natura e poi, dopo, il linguaggio che ci dice com’è la natura (cioè la doppiezza di immagine e significato). Questa è l’idea del linguaggio di Dio che accoppia una ad una parole e immagini (ah dieux! Oh, langage! come si legge per ben due volte durante il film) e che vela e svela come la coppia protagonista del film, che infatti viene continuamente vista tra il vestito e il nudo.
Invece dobbiamo andare verso un’immagine e una realtà che sono già divise in se stesse e che non hanno nulla da scoprire o da coprire, come insegnano gli onnipresenti cani (che infatti ci dice Godard non sono né vestiti né nudi). È un mondo che va oltre la divisione di natura e metafora: un mondo e un’immagine che sono infiniti in se stessi come si dice nel film citando Badiou (“lo zero e l’infinito sono le più grandi invenzioni della storia”) o come mostrano i romanzi di fantascienza di A.E. Van Vogt (a un certo punto compare La Fin du Ā, che è un romanzo giocato tutte sulle logiche non-aristoteliche dove coesistono le contraddizioni di A e non A). È un mondo che ha detto davvero adieu au langage.
Godard forse non vincerà la Palma d’Oro con questo incredibile film-manifesto, ma ci dimostra dopo i tanti film “vecchi” passati durante questo concorso a Cannes, che a 83 anni è ancora possibile fare un film pensando al futuro e a un cinema che verrà, e non ripercorrendo ancora una volta quello che è stato.