C’era una volta il coming-of-age, ovvero quel particolare tipo di forma narrativa cinematografica con cui si chiama(va) la versione “teenager” del vecchio romanzo di formazione. Ma se il romanzo di formazione parlava di storie attraverso cui un protagonista transita verso la maturità e l’età adulta, è proprio perché la crescita non è un processo naturale o necessitato ma deve essere assunta simbolicamente tramite alcuni “passaggi” o eventi significativi della vita.
Detto in altre parole, implicito nel romanzo di formazione è il fatto che la formazione possa non avere luogo. È per questo che esistono persone che rimangono adolescenti tutta la vita così come c’è chi è costretto dagli eventi della vita a crescere molto più in fretta di quanto vorrebbe. Siamo affascinati dai romanzi di formazione perché diventare adulti è una faccenda incredibilmente complessa sempre aperta alla possibilità del suo fallimento
Non è questo il luogo nel quale fare dei sociologismi riguardo a quanto la transizione verso l’età adulta sia una questione divenuta sempre più complessa in molte società di oggi (su tutte quelle occidentali). Non ci sono però molti dubbi sul fatto che al cinema sono sempre più frequenti quelle storie di coming-of-age, dove la verticalità della maturazione lascia il posto a una dispersività orizzontale. Dal Dolan di Mommy, all’Eden di Mia Hansen-Løve o persino al dittico It Follows e The Myth of the American Sleepover di David Robert Mitchell, c’è un sempre più esplicita consapevolezza che la struttura del passaggio all’età adulta necessiti di strutture narrative diverse dal classico romanzo di formazione.
Andrea Arnold aveva probabilmente in mente un progetto del genere quando ha pensato ad American Honey, una sorta di anti-coming-of-age in stile wonderlust dove vediamo una diciottenne dell’Oklahoma scappare dalla classica famiglia disfunzionale del sottoproletariato bianco del sud (ormai un triste topos ultra-stereotipato del cinema americano e non solo degli ultimi anni) per unirsi a una strana comunità di adolescenti in viaggio costante per le autostrade del Missouri, del Kansas e di altri stati del Southwest degli Stati Uniti. Lei, che di nome fa Star, è una ragazza bella e inquieta, che vuole tagliare completamente i ponti con la sua famiglia d’origine e con il luogo di provenienza (e apparentemente per la Arnold ci riesce, dato che non c’è nessun “ritorno del rimosso” a seguito di una scelta tanto radicale) e che trova per puro caso questo gruppo di ragazzi in un parcheggio di un centro commerciale. Lo affascina in particolare uno di loro, Jake, che inizia uno strano flirt con lei a metà tra la seduzione e volontà di protezione.
Non c’è però in questo film alcuna fascinazione per il senso di comunità: non sono hippie, non hanno alcuna idea politica, e anzi, alcuni di loro – come la loro boss, una ragazza fredda, cinica e calcolatrice – dimostrano di saperci fare abbastanza bene con i soldi. L’unico introito del gruppo è quello datogli da alcune truffe porta a porta che mettono a segno in alcuni paesini di provincia dai quali fuggono appena dopo avere racimolato il bottino. Piuttosto sembra quasi di vedere una piccola nascente comunità capitalistica, dove profitto e sfruttamento sono all’ordine del giorno anche se nessuno durante tutto la durata della vicenda sembra avere alcun problema a riguardo. Non è un caso che la Arnold scelga di girare il film in 1.33:1 evitando l’immagine della collettività e anzi, cercando di cogliere l’isolamento di Star all’interno del gruppo più che la sua inclusione.
Nessuno sa cosa vuole in questo film: non c’è motivo per cui questi ragazzi siano in questa comunità così come non c’è un obiettivo da raggiungere. A volte alcuni nuovi arrivano e altri se ne vanno, senza particolare motivi o ragioni. Non c’è maturazione, non c’è approdo finale e ovviamente non c’è politica, non c’è storia ma non c’è nemmeno un vero e proprio mondo al di fuori di loro stessi (di fatto, gli incontri esterni sono ininfluenti, tutto ciò che accade, accade al loro interno). L’orizzontalità del film non è plurale ma claustrofobica e pare, nonostante il tanto viaggiare che il gruppo fa, di non uscire mai dalla testa di Star. Il film dura quasi tre ore ma la sua struttura gli avrebbe permesso di durarne tranquillamente sia una e mezzo che cinque.
Da segnalare il gran lavoro che è stato fatto sulla colonna sonora del film, che mette insieme molto dell’immaginario pop giovanile americano contemporaneo: dal country FM dei Lady Antebellum (la cui canzone dà il titolo al film) all’hip-hop trap di Georgia e Lousiana (OG Maco, Rae Sremmurd, Jucy J, Troy Ave, Lil Wayne) fino a Bruce Springsteen e Steve Earle.