Il quarantasettesimo film di Woody Allen – che ha aperto ufficialmente Cannes 69 – è anche il primo del regista newyorkese a essere girato in digitale. Cosa che salta all’occhio sin dalle prime inquadrature e che diventa via via più evidente osservando il ruolo fondamentale che Allen assegna al côté estetico del film, ma anche all’uso scrupoloso e attento che fa della luce. Fotografato da Vittorio Storaro, infatti, Café Society è un film fatto soprattutto di luce, di colori e di atmosfere. Un film dove la confezione sembra contare più del contenuto e nel quale le scene, le ambientazioni e i luoghi parlano e dicono quasi più dei personaggi.
La storia è quella di Bobby (Jesse Eisenberg), giovane d’origine ebrea che, nei primi anni Trenta, lasciata New York per Los Angeles, grazie all’aiuto di uno zio produttore di Hollywood (Steve Carell), prova a farsi strada nel mondo nel cinema. Non coglie la fortuna sperata ma trova l’amore. Innamorato – ricambiato – di Vonnie (Kristen Stewart) progetta di sposarla e fare ritorno a New York, ma lei è in realtà l’amante dello zio e all’ultimo momento decide di sposare quest’ultimo. Bobby torna quindi a New York da solo, si mette a gestire il locale del fratello Ben, trova moglie e diventa padre. Tempo dopo però incontra di nuovo Vonnie: sembra che nulla sia cambiato e che nessuno abbia mai dimenticato l’altro.
Le situazioni sono quelle di sempre. Non solo spunti narrativi, temi, personaggi e ménage sentimentali sono quelli ricorrenti, ma anche l’ambientazione storica è quella di un periodo spesso frequentato da Allen (in Radio Days, La rosa purpurea del Cairo, Accordi e disaccordi, La maledizione dello scorpione di giada, Magic in the Moonlight), quegli anni Trenta che rievocano la magia dell’epoca d’oro di Hollywood, ma che allo stesso tempo alludono all’inquietudine della Depressione e della fine delle grandi illusioni. «I tempi stanno cambiando» esclama Bobby verso la fine del film, ed è così. Café Society è un film che racconta qualcosa che sta finendo: l’epoca del grande jazz che i protagonisti vanno ad ascoltare nei club newyorchesi, "gli ultimi fuochi" dei Roaring Twenties narrati da Fitzgerald dei quali si respira l’atmosfera decadente soprattutto nella seconda parte del film. Ma anche della grande commedia hollywoodiana di cui sono citati maestri e attori fondamentali – da Howard Hawks a Leo McCarey e Billy Wilder, da Irene Dunne, Errol Flynn e Joel McCrea, fino a Joan Crawford, Barbara Stanwyck e Greta Garbo – tutti protagonisti di un’era che da lì a poco sarebbe mutata in maniera ineluttabile e che alla sofisticata comicità in stile MGM avrebbe finito per preferire le inquietudini e le cupezze del noir anni Quaranta.
La fine della spensieratezza è dunque l’interruzione brusca di un sogno. Allen identifica questo momento con l’ingresso nell’adultità e l’abbandono della giovinezza del proprio protagonista. Bobby, diventato grande e scelta la propria strada, prende atto del fatto che la sua vita è diversa da quella che aveva sognato. Le aspirazioni della prima parte del film, tutta ambientata a Los Angeles, si scontrano con la realtà newyorchese, luogo in cui il film si chiude. Anche le scelte estetiche, come si diceva, assecondano questa contrapposizione. Se la capitale californiana risplende di luce e sembra rimandare alle atmosfere oniriche di un sogno a occhi aperti, New York è senz’altro più fosca e livida: perfetta antonomasia visiva di una realtà che non assomiglia per nulla alla fantasia. E se è pur vero che i seppia e gli arancioni di Storaro così come le tinte pastose degli arredi e dei costumi di Allen rendono in maniera visivamente troppo pesante tutto questo, è vero anche che l’accumulo degli elementi cromatici e scenografici rende ogni inquadratura talmente sovrabbondante da rendere esattamente l’idea di decadenza, malinconia e transitorietà che il regista ha in mente. Tanto che in questo film ogni cosa che si guarda sembra di poterla toccare. Come in un ricordo, una reminiscenza, un sogno lontano nel tempo.
Ma non è una malinconia affettata quella di Allen e – nonostante i suoi sopraggiunti ottant’anni – non è nemmeno una congerie di nostalgie senili e melense. È piuttosto lo sguardo indietro ai ricordi e alla vita di qualcuno che, come ogni sua nuova opera dimostra e come questo film dice, en passant, per bocca della madre di Bobby «vive ogni giorno come se fosse l’ultimo, perché prima o poi lo sarà per davvero!».