Fiore, il nuovo film di Claudio Giovannesi, è sopra ogni cosa una dichiarazione d’amore davanti alla cui trasparente sincerità lo spettatore non sa (non può e non vuole) resistere. L’amore del regista per la sua protagonista, Daphne, ragazzina rinchiusa in un carcere minorile per rapina, e contemporaneamente l’amore (che esonda da ogni inquadratura) dello stesso Giovannesi per la straordinaria attrice che la interpreta, Daphne Scoccia. Ed è una dichiarazione d’amore che dura il tempo del film, dalla prima scena all’ultima: un abbraccio prolungato, una carezza di quelle che a Daphne non sono concesse da sveglia e che sogna di ricevere di notte. Fin dalla prima sequenza, che mostra la ragazza puntare un coltello alla gola di una sua coetanea per rubarle il cellulare, è già chiaro come Giovannesi pedinerà la sua protagonista affidandosi al suo sguardo (e affidando a lei il proprio). Perché l’autore sa che quello della giovanissima attrice – carisma di un’Asia Argento a inizio carriera e una bellezza dalle parti di Irène Jacob e Kristen Stewart – è uno sguardo in grado di sostenere l’ampio ventaglio di emozioni che lui intende veicolare: rabbia, orgoglio, amore, disillusione, speranza. Che poi sono tutti i sentimenti attraverso i quali passa Daphne nel corso del film: la rabbia di chi è relegata ai margini della società, senza una madre (di cui non sapremo mai nulla) e con un padre appena uscito di galera (un Mastandrea a cui bastano venti minuti in scena per riconfermarsi come il migliore attore italiano della sua generazione) e che, in una scena curiosamente speculare a quella tra Marco Messeri e Micaela Ramazzotti ne La pazza gioia di Virzì, rifiuta la responsabilità di prenderla con sé in affidamento; l’orgoglio di chi lotta per preservare la propria dignità nonostante tutto e tutti; l’amore per un detenuto suo coetaneo, Josh, che sembra schiuderle un futuro su cui non pensava di poter contare; la disillusione che segue la notizia del trasferimento di Josh in un altro istituto di pena; la speranza, infine, di una (impossibile) fuga finale. Una tempesta emotiva che il regista trasferisce sul volto della sua attrice in una scena bellissima e arrischiata (e che Giovannesi ha la bravura di troncare bruscamente), durante la quale Daphne ascolta in cuffia Sally di Vasco Rossi sul lettore MP3 regalatole dal padre. Assodata questa rara simbiosi tra regista e protagonista/interprete, non stupisce che il film sia perfettamente a fuoco quando lo sguardo di Giovannesi può coincidere e sovrapporsi a quello di Daphne (come avviene nei primi due terzi del film, quelli ambientati nello spazio concentrazionario del carcere), mentre sembra sfocarsi e perdere lucidità quando si allarga, aprendosi all’esterno, al mondo ‘fuori’. Non è un caso, allora, che nell’ultima parte le sequenze si facciano improvvisamente più veloci e concitate, che gli eventi si moltiplichino e si affastellino, come se si volesse ancora dire troppe cose nel poco tempo rimasto a disposizione per raccontarle (perché non concedersi un’altra mezz’ora?) o, meglio, per narrarle con l’esattezza (di toni e, appunto, di tempi) mostrata nell’ora e mezza precedente. Resta comunque un gran film, Fiore, come resta il miracolo di un’attrice debuttante di impressionante presenza scenica, che lascia l’impressione di avere occhi troppi grandi e pieni di dolore per il suo corpo da bambina.