Di questi tempi parlare di muri e divisioni con accezione positiva e toni romantici potrebbe sembrare un'idea quantomeno azzardata, eppure non si può non provare che sincera simpatia per quella parete divisoria che caratterizza l'ultima spiaggia in Europa in cui uomini e donne fanno il bagno separati. Il folkloristico stabilimento del Pedocìn, infatti, mantiene intatta la propria peculiarità dall’inizio del ‘900, quando fu fondato in una Trieste ancora porto principale dell’Impero austro-ungarico, e racchiude oggi al suo interno storie di persone appartenenti a un’epoca passata che vive ormai solo nei ricordi dei bagnanti più anziani.
Quello descritto dai registi Thanos Anastopoulos e Davide Del Degan è infatti un microcosmo fuori dal tempo, in cui persone da sempre abituate a vivere in una terra di confine hanno trovato la dimensione giusta per potersi rifugiare in una continua e quasi irreale reiterazione di sentimenti, ricordi e situazioni passate, condensate in un presente che scorre fuori sincrono rispetto al mondo esterno. Un luogo che racchiude e “protegge” i suoi frequentatori, i quali si sentono liberi di dire la loro, di chiacchierare di politica e immigrazione, di ricordare gli amici scomparsi, di cantare canzoni popolari, di insultarsi e prendersi in giro davanti a una macchina da presa che sa come lasciare loro il dovuto spazio, affinché possano essere così sinceri da restituire una dimensione capace di commuovere per la sua umana fragilità.
Sembra in questo senso quanto mai appropriato l’approccio scelto dalla coppia di registi, che per quasi un anno hanno frequentato lo stabilimento triestino decisi a catturare la realtà senza intervenire per alterarla, dando così l’impressione di aver colto l’essenza di una cultura e una idea di mondo che stanno scomparendo. Ed è interessante vedere come lo spettatore venga condotto al di fuori dalle mura del Pedocìn solo nel momento in cui la macchina da presa decide di seguire due ragazzine che escono per qualche minuto a caccia di ragazzi nel parcheggio esterno: una sequenza che pare sottolineare l’inevitabile cambio generazionale in atto, senza una accezione positiva o negativa, ma semplicemente per evidenziare come da qui a qualche anno le storie da raccontare all’interno dello stabilimento saranno completamente diverse.
Un mondo, quindi, che con lo scorrere dei minuti scompare pian piano anche sotto gli occhi dello spettatore e fa riflettere su quanto un’idea di cinema di questo tipo, che può ricordare quello di Wiseman per la capacità d’osservazione e quello di Rosi per il modo in cui vengono raccontati i personaggi, possa assumere una valenza antropologica. Perché spesso ci si dimentica di quanto nella realtà incontaminata siano presenti tutte le sfumature della vita capaci di emozionarci in modo diretta e di quanto sia facile provare un malinconico senso di nostalgia per un mondo che ancora esiste davanti ai nostri occhi, ma che ormai è arrivato all’ultima spiaggia.