È di nuovo un film sulla memoria l’ultima opera di Sergei Loznitsa. Una memoria il cui racconto nasce da necessità private ma diventa una questione universale, che riguarda tutti allo stesso modo. Ed è un film che, ancora una volta, usa le immagini come frammenti di questa memoria, come pezzetti, macerie di cui servirsi per ricomporre una storia (non necessariamente con la esse maiuscola).
A Babij Jar – località poco distante da Kiev attraversata da una gola naturale profonda pochi metri – fra il 29 e 30 settembre del 1941 i nazisti trucidarono quasi 34000 ebrei ucraini deportati dalla capitale come rappresaglia dopo un’azione di sabotaggio, a opera dei partigiani e dei servizi segreti sovietici, in cui avevano perso la vita diversi militari tedeschi. Si tratta di uno dei più cruenti e terribili massacri avvenuti in tempo di guerra e rappresenta ancora oggi una ferita aperta nella storia recente dell’Ucraina.
A fare effetto, oltre ovviamente all’atto in sé, è infatti l’enorme operazione di occultamento avviata sin dai primi giorni successivi al massacro. Non tanto per via degli sforzi per nascondere le prove da parte dei nazisti, ma soprattutto per quelli analoghi delle autorità sovietiche nei decenni successivi alla fine della guerra. Un tentativo di rimozione della memoria che ha fatto sì che calasse l’oblio su un episodio ancora oggi sconvolgente e quanto mai necessario ricordare.
Lo stesso Loznitsa racconta di avere saputo la verità soltanto per caso, da ragazzo, dopo aver trovato una vecchia lapide nei pressi del sito, luogo in cui passava quasi tutti i giorni per andare in piscina. Col tempo si è reso conto di come le generazioni precedenti alla sua avessero considerato Babij Jar una sorta di tabù e quanto quella storia, rimasta sepolta sotto la terra per oltre settant’anni, dovesse prima o poi tornare alla luce.
Ma oltre che sotto terra la memoria di quel genocidio insensato era sepolta sotto la polvere degli archivi. Perché le immagini di quell’orrore e degli eventi a esso correlati esistono da più di settant’anni e sono tantissime. Bisognava solo andarle a cercare. Una ricerca con conseguente opera di restauro e selezione che ha richiesto moltissimo tempo ed è qualcosa di più di un lavoro di found footage. Loznitsa ha svolto una vera e propria archeologia dell’immagine. Non riportando in vita soltanto delle vecchie pellicole, ma scrivendo attraverso esse una memoria da porre al confronto con la Storia, oltre che con gli spettatori di oggi.
Ciò che ha riesumato da archivi statali come quello russo di Krasnogorsk (l’RGAKFD) o il Bundesarchiv tedesco di Coblenza, ma anche privati – con un’attività di ricerca accuratissima e certosina – sono per la maggior parte riprese effettuate dai sodati che filmavano con le camere ufficiali dell’esercito (tedesco e russo) oppure con le proprie macchine amatoriali. E sono immagini a tratti sconcertanti, che mettono in risalto la brutalità della guerra, gli atteggiamenti di assoggettamento degli invasori e la disperazione delle popolazioni occupate.
La violenza, la morte, lo stato di completo disprezzo per la vita e la dignità altrui assumono una concretezza e una vividezza spaventosi. E a renderli così scioccanti è anche l’impressione che tutto si svolga in un’apparente “normalità” e in una sostanziale indifferenza. Le donne e gli uomini che osserviamo nei filmati sono immersi in uno stato di sospensione di qualsiasi regola morale o sociale e senza quasi farci caso. Picchiano, sono percossi, uccidono, vengono giustiziati, rilasciano testimonianze che gelano il sangue oppure ammassano cadaveri su cadaveri (nel film se ne vedono centinaia, sparsi ovunque) come se fosse una delle cose più normali del mondo. E in tutto questo ognuno sembra incapace di interagire con gli altri, dando la sensazione che più di tutto l’orrore agisca come un anestetico, un sistema di annullamento dell’individualità potentissimo. E che fa impressione osservare così da vicino.
E stanno proprio qui la grande bravura e la sensibilità del regista nel costruire un film come questo, ovvero nel riuscire quasi ad annullare la distanza fra le immagini e gli spettatori e nel proporre una testimonianza che punta alla memoria attraverso un racconto. Lasciando fuori ogni pretesa di autenticità (impossibile con questo grado di rielaborazione, specialmente su un sonoro accuratamente ripulito e ricostruito), ma allo stesso modo profondo e necessario.
Il materiale d’archivio in questo senso assume, come poche altre volte, il ruolo di un dispositivo di riflessione che ci pone in contatto con la Storia e il film diventa l’ulteriore tassello di un percorso autoriale – quello di Loznitsa – sulla memoria del Novecento e sulle infinite forme che è in grado di assumere. Confermando la natura complessa e profonda del suo cinema che continua a riflettere incessantemente da anni e con grande sensibilità sull’infinita Storia recente dell’Europa.