“Chiuderò questo cinema con una chiave di lacrime”. Celebra cosi la chiusura del monumentale cinema Trianon di Recife il signor Alexandre, storico proiezionista di una delle sale della città, monumenti di un Novecento destinato a soccombere alla gentrificazione, alla riscrittura della società e del sistema economico. E alla smaterializzazione delle immagini.
Ci sono malinconia, dolcezza, lucidità nelle parole di Alexandre, nel ricordo di una vita passata in cabina di proiezione, provato dal calore insopportabile del proiettore, spossato fino alla nausea dai mesi di continue repliche del Padrino che ricordano un tempo in cui il cinema era soprattutto un fenomeno sociale e un rito collettivo che coinvolgeva milioni di persone in un’esperienza condivisa che non tornerà mai più. Ma non c’è nostalgia. Perché la nostalgia non ha posto in Retratos Fantasmas, il bellissimo documentario nel quale Kleber Mendonça Filho riprende i temi dei suoi film precedenti e la sua sensibilità per gli spazi e gli oggetti come tracce attraverso cui leggere il mutamento, mettendo mano a un incredibile archivio personale di immagini domestiche montate con un’infinità di materiali provenienti dalla Fundação Joaquim Nabuco, dalla filmoteca Alberto Cavalcanti di Recife e dal Centro Técnico Audiovisual di Rio.
Un film estremamente intimo che partendo dall’amore e dalla riconoscenza per la madre scomparsa (specialista delle fonti storiche orali), rivela l’ossessione del suo autore per i documenti, per la ricerca, per le mille storie della Storia, per la raccolta di oggetti – visuali e non. Un diario personale che si amplia ben presto per diventare – come già era Aquarius – un viaggio nel Novecento e nella sua evaporazione, un'interrogazione curiosa e attenta delle conseguenze della trasformazione urbanistica e sociale della sua Recife (ma potrebbe essere di molte metropoli in giro per il mondo), dello svuotamento del centro storico, dell’abbandono degli spazi del rito.
Affondando le radici nelle incredibili immagini in super8 e in vhs che raccontano non solo la passione di Mendonça per il cinema ma anche un modo tutto suo di pensare allo spazio privato come spazio di rappresentazione e messa in scena, laboratorio, officina in continuo mutamento, il film ricostruisce infatti una sorta di psicogeografia storica del centro della città che la gentrificazione ha svuotato di investimenti e di attività trasformandolo nel regno fantasmatico che è oggi. I fantasmi di un mondo che non c’è più, smaterializzatosi nell’ebbrezza del capitale e oggi di fronte a un futuro incerto già venato di distopia. Un andirivieni nel tempo che indaga le contraddittorie conseguenze del suo stesso divenire, una sorta di ampliamento documentario di ciò che proprio Aquarius raccontava in forma di finzione.
A partire dai mutamenti di forma dell’abitazione in cui è cresciuto, attraverso le riorganizzazione degli spazi, gli interventi di ampliamento che la rimodellavano mentre, parallelamente, lo spazio di negoziazione esterno si andava restringendo a suon di cancellate, inferriate e rotoli di filo spinato, il regista finisce così per allargare il suo sguardo portandolo fuori dalla finestra, allo spazio pubblico, ai grandi cinema del centro ora abbandonati, diventati dimessi centri commerciali, occupati da gruppi evangelici che ne fanno i propri luoghi di culto (gli unici in qualche modo a conservarne la dimensione rituale). Il cinema come tempio che non resiste alla trasformazione della società ma neppure a quella della natura analogica delle immagini.
Un passaggio però che non preclude la possibilità di un ripensamento ma che, partendo proprio dai fantasmi dell'analogico, cerca di interrogarsi sulla possibilità del digitale. Come nel momento in cui uno sfarfallio improvviso muove i mastodontici caratteri mobili dell'insegna di un cinema immortalata in una vecchia fotografia: le insegne iscritte sugli edifici imponenti, quasi scandire e a vegliare sulla vita pubblica e privata, testimoni del tempo e marcatori della narrazione di un secolo andato. Edifici svuotati, templi da ripensare in una transizione che non esclude una possibile rinascita, come con il lavoro che lo stesso Mendonça fa in quella vecchia chiesa poi divenuta cinema che è il São Luiz. Non una resistenza ma un possibile aggiornamento. Anche di quelle tracce fantasmatiche catturate misteriosamente dalla grana fotografica della pellicola e dell'eventulità soprendente di ritrovarle nel digitale. Perché all'inesorablità della transizione non si può opporre vacuamente la nostalgia quanto, piuttosto, ragionare sulla possibilità.