Concorso

The Girl With the Needle di Magnus von Horn

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1919. La giovane Karoline (Vic Carmen Sonne), operaia cucitrice in una fabbrica dell’indotto bellico, che da un anno attende notizie del marito disperso durante la Grande Guerra, vive in un appartamento in affitto a Copenhagen, ma non paga il dovuto da mesi. Il padrone di casa la mette alla porta, e lei ripara in una soffitta fredda e umida, al limite dell’abitabile. Al lavoro però le cose sembrano andare meglio quando il padrone si accorge di lei. Salvo che poi la giovane rimane incinta, e la situazione precipita, e la malvagia madre del suddetto imprenditore, baronessa, si sbarazza di lei e della creatura che porta in grembo, mettendola senza saperlo sul cammino di Dagmar (Trine Dyrholm) che gestisce un giro di adozioni clandestine per bambini indesiderati; a nulla serve l’apertura del marito Peter, che dal fronte rientra, ma irrimediabilmente trasfigurato in fenomeno da baraccone, seppur dotato di un cuore d’oro. L'oro del cuore non cancella la povertà.

“Non, pas de Invernizio”: non è un racconto dell’autrice de I ladri dell’onore, non solo perché la prolifica scrittrice italiana era già morta nel ’16, prima della fine della Guerra, ma perché l’idea della grazia e della colpa che aleggiano su questo film sono più spiccatamente nordeuropee, luterane; a dispetto della trama da romanzo d’appendice, Pigen med nålen, The Girl With the Needle,  è tratto da un “fait divers”, da una storia vera, dal caso di omicidio seriale più controverso della storia danese, ma Magnus von Horn ce lo fa sapere solo alla fine, contrariamente a quanto si usa dall’altra parte dell’oceano, dove la “true story” è un valore da evidenziare in esergo. Un'evidenza che si fonda sull’idea che tutto funzioni meglio perché più vero, come se la verità non fosse anche tra le righe della finzione più immaginifica, e come se la scrittura non servisse comunque e sempre a sorreggere il funzionamento sullo schermo anche delle più rodate cronache. È una verità infatti che non argina il desiderio di Magnus von Horn di riscrivere la cronaca giocando sporco, dichiarando di voler fare una fiaba per adulti, con una messinscena che prende il sopravvento sulla scrittura vera e propria, e che sembra alimentarsi dei ricordi più didascalici tratti dal manuale di storia del cinema, per squadernarli in un bianco e nero esornativo e ruffiano.

Dalla Sortie des usines dei Lumière, alla frontalità degli anni ‘10, alle inquadrature sghembe di edifici sghembi con le ombre sghembe degli espressionisti, ai fondu degli impressionisti riproposti in maniera vuotamente elegante, ad echi della realtà livida della Neue Sachlichkeit, ai primi piani di Dreyer e Bergman, ai freaks di Browning e Lynch, c’è troppa materia nel caleidoscopio in scala di grigio di von Horn, che perdendosi dietro a queste piccole grandi voglie sembra dimenticare il controllo e la misura, che è innanzitutto lavoro appunto di scrittura; e nel giocare sporco impone al centro della vicenda, come da feuilleton, la parabola umana e esistenziale di Karoline, che è colei che deve compiere costantemente delle scelte, tra l’affermazione di sé e le costrizioni sociali, tra il bene e il male, colei che ha l’ago come strumento per la propria professione. Che però è anche l’ago con cui cerca di porre fine a un problema che ritiene insormontabile, ma anche ago della bilancia, o della bussola. L’ago che conduce lo spettatore al cuore del fatto che fu cronaca più di un secolo fa, ma lo fa dopo un’ora di brancolamenti ed espressioni smarrite e occhiaie fonde come Munch richiede (anche se nella cordata produttiva la Norvegia non c’è, si capisce che culturalmente è vicina), e cluster di contrabbassi e fiati orchestrali gravi e gravissimi, a sottolineare costantemente quello che è già di per sé più che evidente. Un cuore che è nero nero, dove il sistema dei personaggi viene rovesciato senza logica né preavviso, e Karoline è spodestata da Dagmar, esecutrice senza timone morale dei destini già segnati di decine di figli e figlie della colpa; e questo spodestamento avviene se non altro perché Trine Dynholm cerca di dare uno spessore carismatico al personaggio, laddove Vic Carmen Sonne non va oltre il broncio contrito e la chioma scarmigliata di una figurina passiva ed esangue, ma dietro a entrambe risuona il vuoto di una scrittura assente, proprio perché la verità non basta se non ci si prende la briga di aggiornarne la sostanza in parola.

E, a proposito di parola, inquieta non poco il monologo di autodifesa e accusa alla società pronunciato da Dagmar al processo, che punta il dito sulla silenziosa complicità della società borghese, un po’ Monsieur Verdoux e un po’ Cianciulli di Gran bollito, un’esternazione di completo nichilismo, a cui solo in parte rispondono i gesti di Karoline in un finale buonista e appiccicaticcio che avrebbe imbarazzato perfino la Invernizio.