Concorso

Grand Tour di Miguel Gomes

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A differenza dei tanti film girati durante la pandemia o sul tema pandemia, Grand Tour è forse l’unica opera a portare il segno della pandemia dentro le immagini. Perché una buona metà del film Miguel Gomes l’ha girata a distanza, restando chiuso in uno studio con la troupe a Lisbona, mentre il set era allestito a 3500 km di distanza, in Cina, fra Shanghai e la provincia del Sichuan, vicino al Tibet. E questo fatto – cioè che l’esplosione del Covid abbia bloccato la lavorazione del film e ne abbia sostanzialmente influenzato l’esito – pur essendo totalmente incidentale e imprevedibile, ha lasciato dei segni estremamente profondi nel tessuto sia narrativo sia enunciativo del film. La costruzione della forma è infatti per certi versi consustanziale al tema, ovvero al racconto di un viaggio in Asia che diventa occasione per misurare la profondità e la persistenza storica dello sguardo coloniale.

Grand Tour, ambientato nel 1917, racconta di Edward, funzionario dell’impero britannico di stanza a Rangoon, in Birmania, e prossimo alle nozze con Molly, che intraprende un viaggio – di fatto una fuga dal matrimonio – attraverso il continente asiatico percorrendo una lunga lista di paesi (Giappone, Cina, Tailandia, Vietnam, Filippine...). Molly però, convinta che i propositi del fidanzato rispetto alle nozze siano ancora solidi, ne segue le tracce in una sorta di disperato inseguimento senza fine. Come di consueto Gomes non si limita a costruire un racconto, ma piuttosto una serie di suggestioni, di immagini, di memorie che creano un tessuto connettivo visuale in grado di riempire lo schermo a dismisura. E che in questo caso fa somigliare il film più a un diario di viaggio – sullo stile di Sans soleil (1983) di Chris Marker, cui evidentemente si ispira – che a una vera e propria opera filmica in senso tradizionale. Girato in 16mm, con un’alternanza fra bianco e nero e colore e inserti di spettacoli di marionette, mimo e teatro popolare dei vari paesi in cui la storia approda, Grand Tour lavora sulla costruzione di uno sguardo e sulla ricerca, rigorosissima, di una prospettiva capace di veicolarlo quello sguardo.

Gomes prende un personaggio stereotipato, l’Englishman vittoriano, e lo inserisce in uno dei contesti più tipici in cui si è sviluppato il colonialismo europeo: l’Asia centro e sud orientale. Questo inglese, però, parla in portoghese (come quasi tutti nel film) e incarna una sorta di figura archetipica carica di tutto l’immaginario coloniale così come viene elaborato dalla cultura occidentale. Da tutto questo emerge una prospettiva storica estremamente complessa. Gomes, da europeo, sembra arrendersi al fatto di non poter guardare l’Asia con uno sguardo non filtrato dall’esperienza colonialista – riflessione che mette in bocca a un personaggio di contorno, un fumatore d’oppio inglese che parlando con Edward esclama: «noi occidentali crediamo di aver capito questo continente e invece non lo capiremo mai» – e usa il proprio cinema per dare corpo a questa impossibilità, per cercare l’immagine di questa mancanza. E il risultato è un film scoordinato, che sembra arrotolarsi su se stesso, incapace di produrre una narrazione coerente. Ma che proprio grazie a questa forma non riconciliata riesce invece nella non semplice impresa di rendere una descrizione non scontata del complesso rapporto fra oriente e occidente nel mondo di oggi.

Situando il racconto in un momento chiave della storia moderna, quel secondo decennio del 1900 che segna il passaggio cruciale fra modernità e contemporaneità, Gomes parla infatti del nostro presente. E più nel dettaglio dell’origine di uno sfaldamento, di una cesura insanabile fra due mondi che giocano il loro rapporto su un’infinita reciproca appropriazione culturale. Le immagini frastagliate, sgranate e difficili da dotare di senso in termini oggettivi in fondo dicono proprio questo, così come l’accompagnamento delle voci off che spiegano le coordinate del racconto cambiando continuamente lingua (seguendo il viaggio dei protagonisti) asseconda questa prospettiva. Non è cinema per tutti quello di Gomes ma è senz’altro un cinema che merita lo spazio di riflessione e negoziazione che reclama.