Esterno notte, l’abitacolo di una macchina è occupato da una banda sovreccitata di uomini che si sta preparando a qualcosa di losco. C’è chi è nervoso e chi è troppo rilassato per qualche canna di troppo. Quello che è evidentemente il loro capo fornisce istruzioni per lanciarsi poi in un inseguimento a folle velocità che si conclude con lo schermo illuminato delle luci lampeggianti di colpi di pistola. Il risultato è un bagno di sangue. Intanto una donna corre all’impazzata verso una meta che non conosciamo. Sarà quello il finale tragico della storia che stiamo per vedere?
Anni Ottanta, nord della Francia, dieci anni prima. Ina una cittadina operaia – il fuoco delle fornaci della fabbrica sovrasta le azioni dei protagonisti – si è appena trasferita Jacqueline, orfana di madre per un terribile incidente avvenuto sotto i suoi occhi. Il padre accudisce morbidamente quella bambina che crescendo saprà indurirsi ai limiti della sfacciataggine. È quando si trasferisce al liceo pubblico della zona, dopo essere stata espulsa per insolenza dall’istituto cattolico che frequentava, che Jacqueline farà l’incontro destinato a scombussolarle la vita. Davanti alla sua nuova scuola transita perenne un trio di teppistelli, pronto a insultare ogni giorno gli studenti in discesa dallo scuolabus. Ma Jacqueline non è tipo da farsi parlare dietro: alle provocazioni di Clotaire reagisce con un distaccato sarcasmo che si tramuterà presto in curiosità e in travolgente primo amore. È lui a soprannominarla Jackie, diminutivo che porterà con sé tutta la vita, e a farle scoprire un fugace senso di ribellione e una passione emotiva che sembra assoluta. Ma Clotaire si mette nei guai, finisce in prigione per dieci anni e quando esce non ha altro in mente che riprendersi la sua Jackie, ormai sposata con un dirigente di una società di noleggio di automobili – dal comportamento passivo-aggressivo sotto la patina di bravo marito borghese – e che forse non lo ha mai dimenticato.
L’amour ouf, con cui l’attore e regista Gilles Lellouche approda per la prima volta in concorso a Cannes, racconta in maniera bipartita due fasi – due epoche – di un amore irrazionale, forse impossibile. Un amore che si annusa, si cerca per poi perdersi del tutto e infine, forse, ritrovarsi. Clotaire è figlio della rabbia del suo tempo: famiglia numerosa, madre chioccia e padre operaio, nessun futuro da intuire all’orizzonte e un presente che gli offre soltanto – grazie alla sua naturale tendenza alla rissa, al suo coraggio irresponsabile e spavaldo – occasioni criminali. Jackie è in perenne elaborazione del lutto, ribellismo piccolo-borghese e un amore paterno che la sostiene ma non riesce a riempirle la vita. Il loro incontro è una scintilla, la loro brusca separazione un trauma difficile da ingoiare. E quel baratro di dieci anni di galera scontati da Clotaire non sarà facile da ricucire anche se – lui nella sua rinnovata attività criminale, lei nella sua routine insapore da mogliettina borghese – le inquietudini del cuore continuano a ronzare nella loro testa.
L’amour ouf è un melodramma sentimentale, un racconto criminale, una storia di formazione, il racconto accorato di una lotta per la felicità. Il tutto inframmezzato da estemporanei momenti musical – il primo dei quali coreografato sulle note di A Forest dei Cure, gruppo preferito di Jackie – che affastellano di ulteriori suggestioni questo fiammeggiante polpettone di quasi tre ore. Lellouche mescola West Side Story e Carlito’s Way, ambiente proletario e passioni elementari, generi e toni in un’operazione tonitruante priva di sfumature. E se la parte dedicata agli adolescenti è virata su toni più tenui e romantici, quella di Clotaire e Jackie adulti – interpretati da François Civil e dalla sempre magnifica Adèle Exarchopoulos – è segnata da un ritmo adrenalinico che si ripete sempre uguale, come un metronomo impazzito. La regia di Lellouche è sovraccarica, piena di trucchetti visivi e di reiterazioni, con una messa in scena frenetica dal sapore vagamente trucido. Il risultato è un film strabordante, incoerente, diseguale, inzeppato di finali e sottofinali – del resto, L’amour ouf inizia con una fine –, urlato e musicato fino all’eccesso. In qualche modo però riesce a generare momenti di sincera emozione, di inaspettato divertimento, di irrazionale empatia. Un film inutilmente bigger than life – troppo lungo, troppo ripetitivo, troppo sentimentale, troppo tutto – che potrebbe però essere amato come un irragionevole piacere proibito.