Non è inedito trovare a Cannes film che ragionino sul cinema, a livello meta-narrativo (ne abbiamo detto) e anche in forma esplicita (il Richard Gere di Oh, Canada di Paul Schrader, regista che parla del senso dell’immagine documentaria), più raro incrociare nella stessa edizione due film-saggio, prima C’est pas moi di Leos Carax, e poi Spectateurs! di Arnaud Desplechin.
Animale fantastico fatto di fiction, documentario e montaggio con una base narrativa che ricostruisce l’esperienza di visione dell’alter ego del regista, voice over che commenta scene della storia del cinema, interviste, ricostruzioni, documenti.
L’idea di un dispositivo che metta in scena l’atto di guardare, e il guardarsi come forma di relazione, è costante in tutta la filmografia di Desplechin: non solo quando racconta un regista che sta per girare un film come antidoto all’esperienza e alla nostalgia (I fantasmi d’Ismael), o uno scrittore (Tromperie – Inganno, Fratello e sorella), ma anche quando costruisce il gruppo di famiglia in un interno come annidamento di recitazioni (Racconto di Natale), o quando segue le vicende di Paul Dédalus (il suo Antoine Doinel). Film dopo film: Comment je me suit disputé…(ma vie sexuelle), I miei giorni più belli o, anagraficamente dissonante, I re e la regina, dove il protagonista è non più Paul, ancora Ismael, sempre Mathieu (Amalric).
Si parte da qui: dagli spettatori (con il punto esclamativo), dall’educazione sentimentale al cinema di Paul Dédalus che, da adulto, è Amalric e racconta entusiasta (anzi: ne fa il decoupage) la scena iniziale de I 400 colpi di François Truffaut.
Paul, Antoine, Mathieu, Arnauld: spettatori, al plurale, e con il punto esclamativo. Tanto quanto Carax è l’ossimoro dell’egotismo. Semplificando, ma neppure troppo, Carax è il (viaggio acido sul) cinema à la Godard, sulfureo e a tratti lancinante, Desplechin è (la lezione su) il cinema à la Truffaut, ordinato, coinvolgente, anche un po’ didattico (Paul Dédalus è un professore). Non se ne esce: Comment je me suis disputé…(ma nouvelle vague) è il blocco (o bloccaggio simbolico) del cinema francese su quella Storia, è lo specchio del fellinismo di Sorrentino, e del cinema italiano (e della nostra critica).
Diviso in capitoli, mentre l’altro è frammentato per cartelli con lo stesso carattere di Histoire(s) du cinéma, segue le tappe dell’incontro di Paul con lo schermo: la séance di Fantomas 70 (André Hunebelle, 1964) con la nonna (che gli illustra il dispositivo) e la sorella (che li trascina fuori perché ha paura), quella proibita, da minorenne, di Sussurri e grida (Ingmar Bergman, 1972), la resa alla suspense hitchockiana di Io ti salverò (1945, ma visto in televisione), l’histoire de l’amour au/du cinéma con Peggy Sue si è sposata.
Qual è il rapporto tra realtà e cinema (per gli spettatori)?
A tratti Desplechin spiega, anche con attitudine e ansia didascalica: per André Bazin la realtà viene fissata, per Stanley Cavell viene proiettata. Al teorico americano dedica la scena più banale, in cui studenti di cinema e una signora al bar stanno leggendo il suo libro, Il mondo visto, e ne parlano. Offre spunti epigrafici e trinomi (o triadi) di senso, per spiegare il cinema, ma anche per insegnarlo, come forse avrà fatto il suo professore all’università, come Paul Dédalus, come molti di noi faranno, lontani da Cannes.
Lezione 1. Il film si deve vedere tre volte: la prima per stupirsi, la seconda per capire, la terza per imparare.
Lezione 2. Esiste una democrazia dell’immagine (il teatro), una della rappresentazione (il cinema), una della sorveglianza (la televisione): nella prima ogni spettatore vede soltanto la sua porzione di realtà, nella seconda tutti vedono (da soli) la stessa cosa, nella terza è l’immagine a guardare lo spettatore, nell’illusione del flusso (non esistono slides di PowerPoint a riguardo, ma disegni a gesso sulla lavagna da screenshottare dal film).
A tratti Desplechin sorprende (lezione 3): nessuno ha mai visto le tette di Julia Roberts tranne Hugh Grant in Notting Hill, e le lenzuola bianche sono uno schermo. C’est enorme! La più bella riflessione teorica di queste giornate.
Vola alto sul cinema come istanza documentale, con la lunga porzione dedicata a Shoah di Claude Lanzmann e l’intervista a Shoshana Felman (insieme a Carax rimane il trauma de l’image malgré tout). Evoca Napoleon di Abel Gance, per farlo dialogare (idealmente) con quello di Ridley Scott. E poi piomba a terra, con le (brutte) interviste allo spettatore comune. Qual è il tuo film preferito? è la domanda che Dio ha rivolto a Adamo prima di cacciarlo dal Paradiso Terrestre, e non solo perché al cinema ce l’aveva portato Eva.
A differenza di Carax, c’è anche tanta immagine popolare, semplice, anni ’80, Die Hard, Alien, Carpenter. E Peggy Sue di Coppola: Paul incontra l’amata prima della proiezione, con l’amica, si siede dietro di loro a guardarli, perché ha un suo “posto” in sala, come tutti i critici di Cannes, più lontano dall’incandescenza degli occhi dei fratelli di The Dreamers (un altro racconto di spectateurs della nouvelle vague), e poi da lei si fa guardare dalla vetrina di un café, piangente. La vita, di Paul, soprattutto quella amorosa, è una vita da spettatore.
Si guarda un film come si osserva l’oggetto d’amore, piangendo.