In Un altro giro convivono l’irrequietezza dei Mariti di Cassavetes e quel divagare disincantato e libero dei banditi di L’avventura è l’avventura di Lelouch. Uomini che, all’indomani della morte di un comune amico, o consapevoli dell’ormai aridità e inconcludenza delle fonti di sostentamento malavitose, cercano in ogni modo di scongiurare questi eventi: la fine di un’amicizia che è anche e soprattutto (e in tutti e due i casi) la fine di un’epoca e un tempo cui si cerca di stringersi forte. Tempo che si cerca di far rivivere nell’ebbrezza del movimento, partendo per poi fare ritorno - non c’è mai un luogo definito nel cinema di Lelouch, tutto fatto di gesti e corpi sempre sul punto di ricongiungersi, ritrovarsi – e nell’on the road sconclusionato e senza meta di Peter Falk, Ben Gazzara e lo stesso Cassavetes.
E ci sembra che Thomas Vinterberg muova proprio da questo ricco ventaglio di suggestioni per conferirgli nuova linfa nel suo ultimo film Un altro giro, presentato in selezione ufficiale durante la quindicesima edizione della Festa del Cinema di Roma.
Perché se i film di Lelouch e Cassavetes parlano del tentativo folle di esorcizzare l’incedere del tempo mentre i protagonisti si costringono ad una regressione esasperata, tentando di ribaltare, o meglio carnevalizzare, il mondo così com’era per loro, Un altro giro ci mostra una propensione non dissimile al rovesciamento di categorie e dogmi. Martin/Mads Mikkelsen e i suoi amici sono tre docenti di liceo annichiliti e senza più animo – animo nel significato latino del termine, ovvero “coraggio”, “tensione” verso la vita – che decidono di imprimere una svolta radicale alle loro vite sperimentando la teoria dello psicologo norvegese Finn Skårderud, mantenendo ogni giorno il medesimo livello di alcol nel sangue. Uno stratagemma che gli avrebbe permesso di uscire temporaneamente dalle rispettive identità e rinascere, proprio nel momento in cui li si credeva, se non morti, quasi dei fantasmi. Fino al momento spartiacque della storia Martin risultava invisibile agli occhi dei suoi studenti e di sua moglie: non c’era possibilità di dialogo né confronto in nessuna delle due dimensioni e la sua vita incedeva lenta e immobile.
Poi Martin ringiovanisce. I suoi allievi cominciano a guardarlo con occhi diversi e colmi di trasporto e sua moglie non lo riconosce quasi più. Alterati e onnipotenti, lui e i suoi amici credono di aver trovato la formula dell’immortalità: il loro è un gesto – romantico e disperato com’è giusto che sia – di riappropriazione. Vogliono poter tornare ad essere i demiurghi della propria vita, riconquistarsela come Gazzara, Falk e i banditi di Lelouch, e come i giovani cui tutti i giorni insegnano e con cui non per caso Vinterberg apre e chiude il film.
E Vinterberg non ci chiede di scioglierne l’ambiguità o il mistero, bensì di accettarlo, di attraversandolo insieme ai suoi protagonisti, con le loro medesime schizofrenie, angosce e debolezze. Infine, nei suoi contrappunti di corpi e danze prive di ritmo e confuse, nell’incontro tra tempi, età e bisogni e nella loro esplosiva collisione, dopo la fine dell’idillio (degli ideali, di quella gioventù che gli si presentava così prepotentemente davanti) l’intermezzo finale è tutt’altro che nichilista come ci aspetteremmo. Una dichiarazione d’esistenza.