Fra i film proposti nella retrospettiva “Rituales Encontrados” al Festival de Cine de Sevilla, c’è un capolavoro del 1972 di Jacinto Esteva, Lejos de los árboles. Molto più di un documentario a carattere etnografico e sostenuto da un montaggio modernissimo, il film mescola la fascinazione per tutto ciò che costituisce il folclore spagnolo – rituali religiosi, corrida, flamenco – con la profondità di sguardo di chi si interroga sulla società alla quale appartiene.
È interessante per esempio notare come qualsiasi rito cristiano abbia una sfumatura pagana in cui il corpo riprende di prepotenza il posto che dovrebbe occupare (in assoluta coerenza con la religione, tra l’altro). Il sangue e la carne non sono solo testimonianza di peccato e redenzione – impressionanti per esempio le immagini dei flagellanti che dopo essersi frustrati la schiena per le strade, si fanno bucare con degli spilloni – ma dell’ambiguità stessa dell’essere umano, del suo desiderio, del suo narcisismo, della sua caducità.
Le scene bellissime, per quanto cruente, della corrida, che con montaggio alternato vengono intrecciate agli sguardi pieni di concentrazione e paura (prima), di fierezza e pietà (poi) di Antonio Borrero “Chamaco” restituiscono con una certa precisione il rapporto umano e animalesco tra torero e toro. Umano poiché non è più possibile non vedere la sofferenza della bestia, che cade sotto i colpi inferti dall’uomo, che a sua volta guarda l’animale con compassione, ma con una forma quasi di stima, che si prova per chi si è battuto alla pari, con la stessa forza e lo stesso coraggio. Animalesco non solo perché uno attacca l’altro per la propria sopravvivenza, ma perché nell’eleganza del gesto, di entrambi, si cela qualcosa che va oltre (soprattutto per il torero) il movimento appreso. Quella specie di danza che i due mettono in scena è tanto più naturale tanto più dettata dalla paura e dall’istinto.
Non è un caso che subito dopo si veda Antonio Gades ballare il flamenco con una forza, una sensualità e uno sguardo non diversi da quelli di Antonio Borrero. Se nel flamenco in gioco c’è una strana forma di seduzione, tutt’altro che delicata, dal momento che il ballerino non fa che interpretare col corpo i propri stati d’animo guardando sempre fisso davanti a sé, con aria di provocazione e sfida, benché possa essere attraversato da timore, tristezza o gioia, nell’arte della tauromachia quella stessa provocazione serve a bilanciare la paura e l’adrenalina. Il terzo fattore è ovviamente lo sguardo esterno, dell’altro, smascherando una forma di narcisismo (umanissima) in ogni messa in scena. La corrida, così come il flamenco, è – anche – spettacolo. Ma lo sono anche i rituali religiosi che abbandonano la forma privata di preghiera e dialogo con Dio per abbracciare quella pubblica che, come tale, non può non prendere sfumature di tipo pagano, legandosi a rituali assai più antichi e radicati nella cultura popolare. E ancora una volta il sacrificio degli animali (un asino gettato da una rupe, per esempio) non fa che rimarcare la linea di sangue che li tiene uniti agli uomini, ponendoli in una sorta di continuum.
Per questo, al di là delle superficiali letture folcloristiche, Lejos de los árboles è un vero e proprio spaccato della cultura spagnola, del suo immaginario, del suo carattere, non distante dai corrispettivi italiani di grandi autori quali Luigi Di Gianni, Lino Del Fra, Cecilia Mangini, Gianfranco Mingozzi, Vittorio De Seta e, per esempio, un sorprendente Michelangelo Antonioni (Superstizione, 1949), a riprova di come, al di là di certe caratteristiche locali, la cultura latina, di base (o “copertura”) cattolica, mantenga intatte certe radici – e certe caratteristiche – che non faticano poi a trovare riscontro nelle pratiche quotidiane più comuni, permettendo di leggere in trasparenza l’immagine futura della nostra società.